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Venerdì, 01 Novembre 2024

E’ una Mirandolina sui generis. Non foss’altro perché a un certo punto del monologo la si trova a dialogare con un minirobot, a tratti anche in movimento, emblema della massificazione di una società che stenta a ritrovare se stessa e che, invece, sempre più spesso preferisce rispondere solo a determinate logiche, dimenticando l’aspetto delle relazioni. Una trovata scenica interessante quella del regista e adattatore Nicola Alberto Orofino che, ieri sera, al Marcello Perracchio di Ragusa, prodotto dal Centro Teatro Studi, ha portato in scena “Mirandolina”, liberamente ispirato a “La locandiera” di Carlo Goldini. Era il secondo appuntamento della rassegna promossa dal Cts, con il patrocinio del Comune, intitolata “Mercoledì, il teatro!” che sta facendo registrare numeri interessanti nonostante le rappresentazioni si tengano in giornate non tradizionalmente dedicate a quest’arte. Ma tant’è, il comitato formato da Franco Giorgio, Carmelo Arezzo, Giuseppe Ferlito, Giovanni Arezzo, Daniela Antoci e Massimo Leggio ha voluto scommettersi proprio tale aspetto. E, finora, i risultati stanno dando ragione. Il pubblico risponde. Sul palco Carmela Buffa Calleo: è stata lei la protagonista Mirandolina, donna forte e dominatrice, ma anche sicura e volitiva. Dal lontano 1753, anno della prima rappresentazione dell’opera di Goldoni, la figura di Mirandolina è servita per indicare il tipico temperamento femminile che ha condotto col passare negli anni all’emancipazione. Il regista e adattatore Nicola Alberto Orofino ha giocato molto sul carattere forte e impuntato della protagonista della storia, ma senza nulla toglier al maestro Goldoni, aggiungendo un pizzico di contemporaneità al testo. «Mirandolina è più che un archetipo – spiega Orofino – perché è stata, e credo che continuerà ad esserlo, l'esempio più alto di modello di emancipazione femminile. Ma tutto questo, grazie all'inconfondibile stile e alla strepitosa maestria teatrale del genio goldoniano, diventa leggerezza, ironia, sagacia. Mirandolina intende appassionare, stupire, incantare, insegnare. Lo spettacolo, partendo da una riscrittura per una sola attrice del capolavoro goldoniano, ha voluto puntare a ragionare sull'universo femminile che ieri come oggi e come sempre, contribuisce in misura determinante alla definizione culturale del nostro vivere». Insomma, una sublimazione dell’essere donna che, ancora oggi, riesce a catturare, così come accaduto anche ieri sera, l’interesse del pubblico. “Mercoledì, il teatro!” proseguirà, adesso, con “Chet!” di Laura Tornambene e Giovanni Arezzo in programma il 2 maggio, sempre alle 21 e sempre al Perracchio, con Giovanni Arezzo e Angela Dispinseri, regia di Giovanni Arezzo e Laura Tornambene.

 

 

 

«Chi meglio di una compagnia di giovani attori come quella cresciuta in questi anni al TPE potrebbe portare in scena con altrettanta passione questa storia antica eppure contemporanea?»

Queste le parole del regista Beppe Navello dopo la prima  al Teatro Mercadante di Napoli della commedia di Carlo Goldoni del 1762 “Una delle ultime sere di Carnovale”  che il TPE/Teatro Piemonte Europa replicherà fino a domenica  18 marzo. La messa in scena è dello stesso Navello, il quale così chiarisce i suoi intenti: “E’ il momento  di un’altra perdurante ragione di ansia collettiva, che dopo tre secoli riappare puntuale nel dibattito pubblico italiano: quello della cosiddetta “fuga dei cervelli”, che vede i giovani costretti dall’indifferenza del mondo dei padri, a portare altrove, lontano, la loro voglia di lavorare per il futuro”. Dunque un tema di scottante attualità, anche se la commedia è ambientata in una Venezia di tre secoli fa, ma con un filo che ci collega ad oggi con i problemi dei nostri giovani: andare o restare? Questo il quesito a cui le famiglie cercano di dare una risposta per aiutare i più giovani nelle loro scelte di vita.

In scena una numerosissima compagnia di giovani interpreti alle prese coi tanti straordinari personaggi della storia, a partire da Sior Anzoletto nella cui vicenda Goldoni sembra si sia voluto rispecchiare. Si tratta degli attori Antonio Sarasso, Maria Alberta Navello, Alberto Onofrietti, Diego Casalis, Daria-Pascal Attolini, Andrea Romero, Marcella Favilla, Giuseppe Nitti, Eleni Molos, Erika Urban, Alessandro Meringolo, Geneviéve Rey-Penchenat, Matteo Romoli.

L’allestimento scenografico utilizza le riproduzioni di due opere di Canaletto dalle collezioni Intesa Sanpaolo. Le scene e i costumi sono di Luigi Perego; le musiche di Germano Mazzocchetti; le luci di Gigi Saccomandi; le coreografie di Federica Pozzo. La produzione è  stata realizzata con il contributo straordinario della Fondazione CRT.

Per il regista piemontese si tratta della “ terza tappa di un’ideale trilogia civile che, dopo l’Alfieri de Il divorzio e il Marivaux de Il Trionfo del Dio Denaro, attraverso i toni irriverenti della commedia settecentesca, ha l’ambizione probabilmente ingenua “di proporre umili pause di riflessione civile a un paese troppo affannosamente confuso nella propria contemporaneità”, sottolinea il regista Navello.

Dice Goldoni nella premessa a questa sua fortunata commedia di aver voluto raccontare una “metafora” autobiografica: in procinto di partire per la Francia, nel 1762, per sfuggire alle invidie e alle critiche che la sua riforma teatrale suscitava, ha pensato come propria la storia di Anzoletto, disegnatore di stoffe veneziano deciso a portare in Moscovia la sua creatività, anche lui disgustato dalle difficoltà di lavorare in patria. Il tutto attraverso il dipanarsi di una delle tante sere della vita, tra discorsi fatti di nulla, tra il balenare di umori umanamente riconoscibili, tra una partita a carte e una cena tra amici, tra i gesti, le risate e le malinconie attraverso le quali, senza che ce ne accorgiamo, si compiono scelte decisive e irreversibili. Una lingua perfetta e vivace, straniera come il veneziano di trecento anni fa, in vero non facilmente comprensibile, anche se la voce fuori campo prima dello spettacolo invita il pubblico a non preoccuparsi troppo di comprendere ogni battuta, agli attori il compito di farsi capire, trascinando tutti in un’irresistibile condivisione poetica.

“La famiglia è come una mano: il pollice deve aiutare le dita più piccole, ma tutte insieme devono fare il proprio”. È questa la filosofia di vita di Padron ‘Ntoni, il protagonista de I Malavoglia, portato in scena domenica scorsa al Perracchio di Ragusa nell’ambito della rassegna “Teatro in Primo Piano”, interpretato da un ineguagliabile Enrico Guarneri, per la regia di Guglielmo Ferro, figlio d’arte dell’attore e regista Turi Ferro. Il testo letterario verghiano, apparentemente inadatto al teatro contemporaneo, è stato magnificamente allestito, con un effetto scenico estremamente realistico, riproducendo gli usi e costumi di Acitrezza, la Provvidenza con le sue vele spiegate, la casa del Nespolo. Come scenografia, una piattaforma in legno mobile, che si presta a mille trasformazioni – opera del maestro Salvo Manciagli – e conserva la semplicità della fine del XIX secolo, dove tutto era di legno e l’unica ricchezza consisteva nel possedere la “roba”: case, barche, proprietà. E anche la Repubblica italiana è vissuta come un nemico che sottraeva la roba e braccia alle famiglie: impoverendo le famiglie con i dazi sul sale e il grano e imponendo la leva obbligatoria per i maggiorenni. La trama della pièce è conosciuta sin dai banchi di scuola; I Malavoglia è un romanzo scritto da Giovanni Verga in terza persona, in forma impersonale e con l’integrazione di molti dialoghi in discorso diretto, in siciliano arcaico. Si raccontano le vicende della famiglia Toscano, ribattezzata “Malavoglia” per le disgrazie familiari, sopraggiunte in seguito all’“affare dei lupini” combinato con zio Crocifisso. Una scorciatoia per fare soldi pagata a caro prezzo, con la perdita di Bastianazzo, il pater familias, ancora giovane e forte, morto in mare nel trasporto dei lupini avariati. E da questa disgrazia ne sono seguite altre: la morte del secondogenito Luca in guerra, il primogenito ‘Ntoni, diventato un balordo, il disonore caduto sulla minore Lia e così via. Si tratta dell’ineluttabilità del proprio destino, cui nessuno può opporsi, senza scontarlo sulla propria pelle. È questo l’ideale dell’ostrica, la poetica verghiana per la quale è meglio accettare di buon grado la propria condizione, perché aspirare a migliorarla, è solo fonte di tragedie ignote. Il pensiero verghiano è simboleggiato dal personaggio di Padron ‘Ntoni – interpretato da Enrico Guarneri – che concepisce la vita soltanto ad Acitrezza, tra il duro lavoro e il conforto della sua famiglia e con un unico sogno da realizzare: “tornare padrone” della Provvidenza e morire nella casa del Nespolo. Di parere opposto è il primogenito ‘Ntoni, emblema dell’uomo moderno, figlio della Repubblica, che alla roba preferisce la vita in città, tra sfizi e migliori opportunità lavorative.

Strabiliante è la presenza scenica di Enrico Guarneri, già noto per il suo talento comico grottesco, ma che ha stupito per la sua vis tragica e la sua perfetta mimesi con l’anziano e autoritario Padron ‘Ntoni. “Un semplice dal cuore duro, apparentemente impenetrabile – ha spiegato l’attore – ma in verità un uomo buono, legato alle tradizioni e ai vincoli familiari, che sopravvive solo per essi”. Una recitazione eccellente, premiata dai tanti e consecutivi applausi ricevuti dal pubblico, che ha apprezzato la sua svolta tragica, per l’intensità e l’introspezione della sua messinscena. Toccante è anche l’interpretazione di Ileana Rigano, nei panni dell’infaticabile Maruzza, la madre vittima delle tragedie, ripiegata su se stessa, dopo aver perso un figlio e il marito in mare in seguito all’affare dei lupini. Un cast eccellente, dove brilla anche Francesca Ferro, altra figlia d’arte di Turi Ferro, nei panni di Mena, la sfortunata che dovrà rinunciare ai suoi sogni di nozze con Alfio Mosca, per le disavventure della sua famiglia, accettando di buon grado il suo nuovo destino. Insomma, una pièce intensa, coinvolgente, che ripresenta la temperie politica e sociale dell’epoca, dall’alto valore storico e didattico.

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