“Quel che serve per convincere i musulmani a non combattere il jihad contro i cristiani e l’Occidente non è che gli imam vadano a Messa una domenica, seduti in prima fila, disposti a scambiare il segno della pace con i fedeli (che è la pace di Gesù, non quella degli uomini), a parlare di pace e recitare versetti del Corano e a mangiare pezzi di pane offerti loro dal celebrante al momento dell’Eucarestia”. (Anna Bono, Quel che gli imam devono fare (e non fanno), 6.8.16, LaNuova BQ.it).
«Siamo favorevoli all'uso delle basi aerei italiane e saremmo molto felici se Roma prendesse una decisione in tal senso e le mettesse a disposizione nell'azione degli Usa contro Daesh a Sirte». Lo ha affermato all'Ansa il generale Mohamed al Ghasri, portavoce delle milizie che partecipano all'operazione militare per la liberazione di Sirte. «Se l'Italia prenderà questa decisione ci farebbe piacere che il mondo intero la seguisse per combattere Daesh, una formazione molto pericolosa e nemica dell'umanità».
Prosegue la strategia mediatica del terrore targato Isis. Stavolta il bersaglio delle minacce è Vladimir Putin.
C'è poco di nuovo nelle minacce che la propaganda jihadista rivolge alla Russia, solo uno dei numerosi nemici del sedicente Stato islamico, che non conta di fatto alleati neppure tra gli altri gruppi radicali, con cui anzi spesso si ritrova a lottare.
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L'Italia potrebbe essere chiamata ad avere un ruolo di primo piano nelle operazioni. Come e noto i caccia-bombardieri Usa sono tornati a bombardare la Libia.
L’ambasciatore russo in Libia, Ivan Molotkov, ha dichiarato che i raid aerei Statunitesi in Libia "non presentano elementi di legalità.
Il pakistano Muhammad Waqas, 27 anni, e il tunisino Lassaad Briki, 35enne, sono stati arrestati nel luglio 2015 e condannati dal Tribunale di Milano lo scorso maggio. L'indagine della Digos - coordinata dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Enrico Pavone - era nata dai tweet con le foto del Duomo di Milano, del Colosseo, di auto della polizia. Alcuni messaggi: «Siamo in vostre strade. Siamo soldati di Allah», «Siamo già a Roma. Nostri coltelli sono affilati e pronti per la macellazione».
«Islamic State in Rome» era l'hashtag usato per minacciare il nostro Paese. E la propaganda via web, insieme agli attentati che progettavano, sono costati a due aspiranti jihadisti la condanna a sei anni di carcere per terrorismo internazionale.
Le motivazioni della condanna pubblicate ieri dalla corte d'Assise presidente Ilio Mannucci sono uno dei primi documenti giudiziari italiani sul fenomeno dei «lupi solitari» che aderiscono all'Isis dall'Europa. E preparano attacchi contro gli «infedeli». Come gli imputati che, per gli inquirenti, se non fossero stati arrestati sarebbero passati all'azione.
Nel mirino anche la base Nato di Ghedi, non lontano da Manerbio Brescia, dove i due abitavano. Non serve - spiegano i giudici - che i lupi solitari commettano azioni violente per essere considerati pericolosi ed essere perseguiti. «L'esecuzione di un'azione terroristica in genere segna anche il momento in cui l'intervento repressivo dello Stato è ormai inutile». Da qui la necessità dell'«anticipazione» delle contromisure, «con la configurazione di un reato di pericolo».
L'Isis ordina «di colpire gli infedeli ovunque si trovino, cosicché ogni aderente sa perfettamente qual è il suo compito, la cui esecuzione dimostra la condivisione e il perseguimento degli scopi dell'associazione e viene perciò dalla stessa rivendicato». È il «terrorismo individuale», marchio di fabbrica del Califfato.
Resisterà la République alla paura ? Resisteranno i valori, la presunzione di innocenza, le garanzie individuali agli attacchi? François Hollande cerca di tenere duro e con lui il governo. Ieri il presidente ha fatto sapere al termine del Consiglio dei Ministri e prima dell'ennesimo consiglio straordinario di Difesa, che «il terrorismo si vincerà con le armi della République».
Ma queste armi sembrano sempre meno efficaci, e sempre più numerosi - a destra ma anche a sinistra, i sindaci, l'opinione pubblica - sono quelli che chiedono leggi speciali, misure straordinarie, uno stato più forte che di diritto, che combatta e vinca la guerra. Dopo Nizza e dopo Rouen, il ministro dell'Interno Cazeneuve ha precisato, se mai ce ne fosse bisogno, che «il livello della minaccia terroristica è altissimo, come non lo è mai stato». Per far fronte, il ministro ha annunciato il rafforzamento nazionale anti-jihad e un nuovo patto con i sindaci, visto che ormai è chiaro: possono colpire dovunque, al centro di Parigi, sul Lungomare più famoso della Costa Azzurra, in un borgo sconosciuto della Normandia. Il ministro della Difesa Le Drian ha intanto deciso di dislocare fuori Parigi 6mila dei 10militari del dispositivo Sentinelle (in azione dal gennaio 2015).
La polizia francese conosceva il secondo terrorista di Rouen. Conosceva il suo volto e sapeva da cinque giorni che stava per compiere un attentato sul territorio nazionale, «da solo o con altri». Venerdì scorso l'antiterrorismo aveva ricevuto dai servizi d'informazione di un paese straniero la foto di questo ragazzo di nemmeno vent'anni con una nota: «È in Francia, sta per commettere un attentato». Nient'altro: né un nome, né un'impronta digitale. Niente. Nemmeno il luogo possibile dell'attacco, una data, un modus operandi. Lo hanno cercato per cinque giorni, ovunque: perquisizioni, foto segnaletiche diffuse in tutta la Francia. Alla fine quel volto la polizia lo ha trovato l'altro ieri: troppo tardi.
Intanto indossa una polo a righe bianche e verdi e passa con calma, senza una gran verve, lasciando tuttavia fluire parole di fuoco e minaccia, rivolte contro la Francia e i francesi,dopo aver ucciso, insieme a un complice, il padre cattolico Jacques Hamel
"Assaggerete quello che i nostri fratelli e sorelle hanno assaggiato - dice ancora il jihadista, ucciso nel blitz delle forze di sicurezza francesi nel paese vicino a Rouen -: distruggeremo questo Paese e alzeremo la bandiera della religione e della parola di Allah".
Entrambi i jihadisti erano nel mirino dell'intelligence francese, che tuttavia non aveva abbastanza informazioni e non ha potuto fermarli in tempo. Adel Kermiche, il complice di Petitjean, era stato rilasciato con l'obbligo di indossare un braccialetto elettronico. "Un'errore", ha ammesso in un'intervista a Le Monde il premier Valls
Ad aprile Abdel Malik, aveva poi lasciato il suo lavoro e a giugno l'intelligence in Turchia lo aveva scoperto mentre cercava di raggiungere la Siria e qui unirsi agli uomini del sedicente Stato islamico. Secondo fonti della sicurezza francese sentite dalla Reuters, una cartella su di lui era stata aperta un mese prima dell'attacco, quando aveva dato i primi segnali di radicalizzazione.
Prima di Ad entrare in azione in una chiesa di Saint-Etienne-de-Rouvray, prima di comparire in un video rilanciato dalla propaganda del sedicente Stato islamico, in cui invita a colpire la Francia, fino a che "la bandiera della religione e della parola di Allah" non sarà alzata sul Paese, Abdel Malik Petitjean lavorava in aeroporto.
Fino a pochi mesi fa, il killer di Rouen era un interinale addetto al carico e scarico di bagagli all'aeroporto di Chambéry. E fonti citate dal Daily Mail sono chiare nel sostenere come questo abbia costituito, se non un rischio, almeno un grosso problema di valutazione.
"Petitjean non ha avuto problemi a superare le indagini della polizia e le valutazioni psicologiche", dicono le fonti del tabloid inglese. Poi ancora: "Era considerato un gran lavoratore, un giovane amichevole che non rappresentava un pericolo né per il personale né per i viaggiatori in transito dall'aeroporto".
Intanto polemica in Germania l estrema sinistra era stata opposta al espulsione del Siriano da parte delle autorità della Baviera in data 2 dicembre 2014.Con l'assitenza e l'aiuto di Harald Weinberg, un parlamentare del partito di estrema sinistra Die Linke. A renderlo noto è la rivista tedesca Bild.
Secondo la Bild, Daleel avrebbe ricevuto un ordine di espulsione da parte delle autorità della Baviera in data 2 dicembre 2014. Weinberg, però, intervenne scrivendo alla città di Ansbach per chiedere di non procedere all'espulsione finché le cure mediche che il siriano stava ricevendo non fossero state portate a termine. Al tempo Daleel era stato ricoverato per una ferita al ginocchio. Weinberg, intervistato dalla Bild, ha detto che "se al tempo avessi saputo di cosa sarebbe successo avrei agito in modo diverso".
Il ricorso del siriano era però stato respinto nel febbraio del 2015. L'atto a procedere venne però rinviato a causa di un presunto tentativo di suicidio da parte dell'espulso, che si era tagliato un braccio "in maniera superficiale".
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