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Mes manda in frantumi l'alleanza Pd-Cinque stelle. I due partner principali del governo Conte, infatti, votano in modo opposto su un atto del Parlamento europeo che riguarda il fondo salva-Stati.

La tensione tra soci di maggioranza sale. Luigi Di Maio guarda all'Europa: "La Bce ci ha dato un grande sostegno acquistando i nostri titoli di Stato. Gli strumenti ora ci sono e dobbiamo riconoscerlo. Quindi basta piagnistei, tocca al governo dimostrare di essere all'altezza della sfida. Il presidente Conte continua a dire che sarà sufficiente il Recovery Fund e noi abbiamo fiducia nelle sue parole".  

Il Partito democratico insiste invece sul sì ai 37 mld di euro destinati alla sanità. Il presidente dei senatori dem, Andrea Marcucci, propone la nomina "di un Garante per il Fondo sanitario. Una figura autorevole che rassicuri innanzitutto quanti pensano che l'Europa possa nascondere qualcosa sull'uso di questi fondi".

Ma vediamo perché Lega FDI, e parte del M5S e contro il mes e la troika...Dopo la grande recessione e la crisi economica del 2007-2008, la Troika è intervenuta più volte: nel 2010 il primo Paese a chiedere aiuto è stato l’Irlanda che ottenne un prestito di 78 miliardi in cambio di tagli ai salari e una riforma fiscale. Nel 2013 Dublino è uscito dal piano di aiuti rimborsando l'intero prestito. Anche il Portogallo si è rivolto alla Troika e dovette realizzare un piano di tagli a pensioni e stipendi pubblici, oltre a un aumento della pressione fiscale. Lisbona è uscita dal piano di aiuti nel 2013. Poi è toccato alla Spagna, tra il 2011 e il 2012, a causa della bolla immobiliare. Un piano di tagli consistente ha permesso di ripagare il debito.

L'intervento più famoso della Troika, che l'ha resa molto impopolare agli occhi dell’opinione pubblica, è quello nella crisi della Grecia. Nel 2010, i rappresentanti di Bce, Fmi e Commissione europea sono intervenuti per provare a risolvere l'aumento incontrollato del debito pubblico e il declassamento dei titoli al livello più basso. Atene chiese un aiuto da 275 miliardi di euro promettendo riforme molto pesanti per i contribuenti greci: tagli alla sanità, tasse sulla casa, slittamento dell'età pensionabile, prelievi forzosi. Dopo l'intervento della Troika è stato attivato il “fondo salva-Stati” che ha scongiurato il default greco.

Spesso gli interventi della Troika sono stati criticati per i suoi piani di austerità e per le “ingerenze” nelle politiche dei Paesi aiutati. In Grecia questo si è tradotto in scontri in piazza. A partire dal gennaio 2014, lo stesso Parlamento europeo ha avviato un'inchiesta formale per verificarne trasparenza e livello di democraticità degli interventi proposti e attuati.  

Era il 26 settembre 2012 quando Claudio Messora, oggi autore del videoblog sovranista Byoblu e in passato capo della comunicazione Cinque Stelle in Europa poi licenziato, spiegava agli iscritti del blog di Grillo dei tempi d'oro cos'è il Mes. «È un trattato che istituisce un'organizzazione finanziaria che influisce pesantemente sulle nostre sorti economiche», esordiva. Non una mensa dei poveri, aggiungeva, ma «un programma di pesanti condizionalità e di espropri», accompagnato dalla «cessione di parti di sovranità» e nella «firma di memorandum di intesa a opera della Troika (Commissione europea, Bce e Fmi)».

Nel post, lunghissimo e corredato dal videointervento di Messora, si dedicava ampio spazio alla Grecia per mostrare in cosa consistono le condizionalità e i processi di ristrutturazione del debito sovrano. «Il Fmi - scriveva Messora - ha imposto la privatizzazione e quindi la cessione al mercato di tutti i più grandi asset del Paese, per esempio gli aeroporti, le poste, le autostrade». Si contestava che l’Italia dovesse contribuire al Fondo con 15 miliardi, costringendola a ricorrere al mercato («Cominciamo un processo di salvataggio indebitandosi ulteriormente e pagando interessi elevati»), si attaccava il piano di rientro dal prestito come «strozzinaggio applicato agli Stati», si criticavano Mario Monti e Mario Draghi, si disapprovava la regola del pareggio di bilancio in Costituzione approvata ad aprile di quell'anno.

Il messaggio finale suonava pressappoco così: sul Mes nessuno vi sta dicendo la verità, noi vogliamo informare i cittadini «sulle tragiche conseguenze di un trattato che ci sottrarrà la sovranità popolare senza consentirci in alcun modo di recuperarla».

Analiziamo il perche la Ue di attrazione e di Presidenza Tedesca, preferisce il mes,gli eurobond (per la crisi attuale ribattezzati come corona bond) sono titoli di debito emessi da un debitore che ha bisogno di un credito e acquistati dai creditori, che però sono garantiti da tutti gli Stati membri dell'Unione Europea. Se uno Stato non dovesse essere più in grado di pagare, sarebbero gli altri a farlo per lui. Sul tavolo europeo da oltre dieci anni sono stati anche il pomo della discordia durante la crisi del 2008, ma furono accantonati per il rifiuto di Paesi come Germania e Olanda. Rimessi in gioco da Paesi come l'Italia, la Spagna, ma anche la Francia hanno incontrato ancora una volta il rifiuto degli Stati Membri con minor debito pubblico.

Da una parte i Paesi del Sud credono che i corona bond siano la migliore risposta che possa dare l'Europa a questa crisi, anche perché eviterebbe che il debito pubblico dei Paesi più colpiti da questa crisi (Italia con un debito sopra il 130% del PIl prima della crisi) e Spagna (con il 98%) aumentasse ulteriormente.

Dall'altra, ci sono i Paesi come Germania e Olanda che vedono negli eurobond più rischi che vantaggi e più ingiustizia che solidarietà. Il problema che nasconde l'eurobond è che il suo rifiuto fa sì che i Paesi del Sud si sentano meno protetti, mentre la sua approvazione viene vissuta come uno sfruttamento per i Paesi del centro e del nord d'Europa, i più rigorosi in termini di deficit, debito pubblico e tasso di risparmio.

Ci sono dei motivi che Olanda e Germania si rifiutano di dare il loro sostegno agli eurobond , come sottolineato da CNBC, il piano massiccio di Quantitative Easing messo in campo in risposta al coronavirus da parte della BCE rappresenta agli occhi di Olanda e Germania un aiuto più che sufficiente da parte dell’Unione Europea. Tedeschi e olandesi ritengono che tale stimolo, che contribuisce a creare un ambiente di mercato piuttosto buono, si muove a beneficio di tutti i Paesi che utilizzano l’euro, non rendendo così necessario il ricorso agli eurobond.

La Banca Centrale Europea ha provveduto a lanciare un QE da 750 miliardi di euro nel corso del 2020 ai fini di abbassare i tassi di interesse di ciascun Stato membro dell’Eurozona.

A livello di stabilità politica, entrambi i Paesi non se la passano molto bene al momento, i rispettivi governi sono entrambi aggrappati ad alleanze politiche piuttosto fragili

In Germania, Angela Merkel si è vista costretta a unire le forze con il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) a seguito delle ultime elezioni datate 2017. La coalizione tra il CDU della Merkel e l’SPD è già stata messa a dura prova e una divisione intestina a tema eurobond potrebbe portare ad una rottura definitiva.

In Olanda il primo ministro Mark Rutte, liberale, sempre nel 2017 ha dovuto cedere alla creazione di una coalizione con altri tre partiti, i cui rapporti sono esacerbati dalle attività di opposizione in Parlamento ad opera della crescente contrarietà all’UE. Il Partito per la libertà, guidato da Geert Wilders, è il secondo gruppo più forte all'interno del Parlamento olandese in termini di numeri.

Sul fronte anti-Europa, la Merkel sta avendo a che fare con Alternativa per la Germania (AfD), che rappresenta il terzo gruppo più numeroso all'interno del Parlamento tedesco. Il partito si è detto subito contrario agli eurobond - un suo portavoce ha dichiarato che né il coronavirus né l'euro “giustificano il fatto che i contribuenti tedeschi siano dissanguati per il debito dell'intera UE”.

Così I Paesi del Nord, inoltre, considerano che il meccanismo dell'eurobond non sia immediatamente applicabile perché comporterebbe una modifica della stessa Costituzione di questi Paesi, mentre ne esiste un altro già pronto e poco utilizzato: Il Meccanismo europeo di Stabilità (MES). Si tratta di uno strumento condiviso da 19 Stati membri dell'euro che emette bond europei sulla base di capitale versato e garanzie. Ma si tratta di un meccanismo che comporterebbe un aumento del debito pubblico. L'italia si è presentata all'Eurogruppo pretendendo nessuna condizionalità all'utilizzo del meccanismo Salva-Stati, neanche quelle di un prestito "light" proposte dalla Germania.  

Tutto nasce nel 2010-2011 quando alcuni paesi Ue si trovarono sull'orlo del tracollo finanziario.  Ci si era scontrati con l’art. 123 dei Trattati che vieta agli stati membri (e alla BCE) di ‘salvare’ paesi in difficoltà. La logica di questo articolo è chiara: gli stati membri non devono essere incentivati a indebitarsi nella convinzione che altri paesi correranno in loro soccorso. Ma i tempi erano eccezionali e la crisi mordeva l'economia reale e tagliava posti di lavoro. Da qui l’aggiramento dell’art. 123 prima con un fondo temporaneo (l’EFSF che aveva già concesso 175 miliardi di euro di prestiti a Irlanda, Portogallo e Grecia) e poi con uno permanente, il MES, peraltro dietro forte richiesta dell’Italia che rischiava di non avere ancore di salvezza europee nel caso il ripagamento del proprio debito pubblico risultasse insostenibile. Una ipotesi tutt'altro che peregrina.

Perche nasce il MES: che e una organizzazione internazionale costituita con un Trattato affiancato – ma non incluso – in quelli Ue e che può contare su un capitale di 700 miliardi di euro di cui gli stati membri iniziano a versare pro quota 80 miliardi di euro (con quasi il 27% del capitale la Germania è il primo contributore; l’Italia partecipa con il 18%). Il MES può concedere prestiti ai paesi in difficoltà – e lo ha fatto finora con Cipro (€6,3 miliardi), Grecia (€61,9 miliardi) e Spagna (€41,3 miliardi) – ma a fronte di una rigida condizionalità. In pratica chi riceve i prestiti si obbliga ad approvare un memorandum d'intesa (MoU) che definisce con precisione e rigore quali misure si impegna a prendere in termini di tagli al deficit/debito e di riforme strutturali. Il MES prende le proprie decisioni con una super maggioranza dei voti dei paesi membri e opera in stretto coordinamento con la Commissione europea cui spetta, ad esempio, la negoziazione sul MoU con il paese coinvolto e con la BCE e il FMI (nel caso in cui quest’ultimo venga coinvolto nel salvataggio).

Perché questa ossessione per il Mes? Il fatto che sono 37 miliardi che l'Italia riceverebbe quasi subito. Non è tuttavia, una ragione sufficiente per spiegare questa fissazione. O il Mes è diventato uno strumento ideologico per dividere il governo e di metterlo anzitempo (senza però, avere un'alternativa pronta); o i suoi sostenitori, almeno una parte, inseguono un fine che ci sfugge, e che certamente nulla ha da condividere con la volontà di usare le risorse promesse per rilanciare il Paese.

I sostenitori del Mes sono arruolati tra le fila dell’europeismo elitario, cioè quei gruppi di interesse che considerano l'Europa un centro di potere piuttosto che un'opportunità per migliorare le condizioni di libertà, convivenza, e prosperità dei cittadini.

Queste élite che come tali condividono molto, stesse scuole di provenienza, professioni, circoli sociali, e naturalmente, orientamenti politici, sono accomunati dall'idea sbagliata che l'Europa sia un meccanismo perfetto perché risponde ad un insieme di regole ben precise come se ci fosse una Costituzione europea. I fatti hanno dimostrato che sia il meccanismo è – fortunatamente – imperfetto, sia che non c'è alcuna Costituzione.

Nonostante il rifiuto del governo sia definitivo, i pro Mes sfruttano la loro posizione di privilegio per alimentare il dibattito, attraverso i media tradizionali a cui hanno accesso esclusivo, con campagne ben orchestrate sui social media.

L'argomento che impiegano è semplice: 37 miliardi subito, a tasso di interesse risibile, senza ricatti, per sostenere i cittadini e rilanciare l’economia. Le loro analisi dimenticano quello che i cittadini hanno invece, compreso bene: il Mes è una banca dell'Eurogruppo (19 Paesi aderenti all'euro) non della Ue (27 Paesi).

Non essendo della Ue, ha un proprio Trattato costitutivo e proprie regole interne. Qui c’è evidente – e i pro Mes evitano l'argomento – il rischio reale corso dai Paesi che prendono soldi dal Mes. E cioè che per il Trattato (e per le regole interne) le condizioni dei prestiti e il loro controllo vengono supervisionati dal trio Commissione Ue, Fondo Monetario e Bce – alias la Troika.

La Troika, quando si muove (come ha fatto in Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro), non si limiti a dare suggerimenti di buon senso. Il suo approccio e di decidere tutte le misure da adottare nel minimo dettaglio, sia del merito che della tempistica.  I dettagli dovrebbero essere lasciati alla sovranità nazionale, nel rispetto dei saldi di bilancio. Se un Paese si deve appropriare delle riforme, deve avere un margine di trade-off negli interventi. L’approccio autoritario è inutile e controproducente».

L'ultimo 'no' al Mes del Movimento 5 stelle è arrivato, all'inizio del vertice degli esponenti di governo. La contrarietà al fondo salva Stati è stata compatta - riferisce chi era presente alla riunione - e il capo politico Vito Crimi non ha apprezzato chi nei partiti di maggioranza su questo tema si sta "muovendo con modi e accenti che non si conciliano con questa fase cruciale per il Paese".  

Nel M5s la situazione è fluida. Beppe Grillo avrebbe dato la benedizione all'approvazione del fondo salva-Stati. Una mossa che punterebbe a rafforzare in questa fase la posizione del presidente del Consiglio sempre di più sotto il fuoco del Pd. C'è la mina Alessandro Di Battista, che continua a sabotare un'eventuale intesa con i democratici sul Mes. Il ministro degli Esteri Luigi di Maio gioca sul fondo salva-Stati una doppia partita: l'ex capo politico dei Cinque stelle fa l'equilibrista. Spinge Conte verso il sì per indebolirlo agli occhi dei gruppi parlamentari. Accompagna i malumori della base perché vuole tenere aperta la porta della rottura con il Pd e preparare il ritorno con la Lega (contraria al Mes). Di Maio conosce meglio di chiunque gli umori della base grillina: accompagna Conte nel burrone. Quale miglior modo di un suicidio sul Mes? Salvini è alla finestra: assiste all'esplosione del Movimento per soffiare senatori e tentare la spallata prima dell'autunno.

L'ultima scintilla in casa grillina è l'iniziativa portata avanti dai parlamentari Raphael Raduzzi, Alvise Maniero, Pino Cabras e dall eurodeputato Piernicola Pedicini. I quattro pentastellati hanno presentato un documento dal titolo «Undici motivi per dire no al Mes» che avrebbe fatto andare su tutte le furie uno dei big del Movimento a capo di una commissione parlamentare. «Io mi sono rotto il c.... Chiedo l'espulsione di Cabras, Randuzzi e Maniero», lo sfogo di esponente pentastellato, tra i più dialoganti sul ricorso al fondo Salva Stati. La tensione è ormai alle stelle. Italia viva attacca: «Se non prendiamo i soldi del Mes c'è la patrimoniale», avverte Davide Faraone. Conte sembra essere precipitato nelle sabbie mobili del Mes.

"Tutte le ragioni obiettive portano a dire che non si capisce perché dobbiamo dire di no", afferma invece a SkyTg24 Piero Fassino, che critica duramente il Movimento. "L'atteggiamento del M5s è inaccettabile - spiega senza giri di parole il deputato dem - non si pianta una bandiera e poi si dice che non ci si muove da lì per ragioni puramente ideologiche. L'argomento che viene addotto sui giornali è che il Movimento si spaccherebbe perché alcuni non sono d'accordo. Vengono prima gli interessi di un Paese o di un partito? In nome di un interesse di partito si sacrifica l'interesse di un Paese. Lo trovo insensato", conclude.

Anche per Matteo Renzi, leader di Italia viva, "è fondamentale chiudere rapidamente la partita sui 37 miliardi che servono alla nostra sanità e che, per un motivo ideologico, qualcuno vorrebbe buttare via". Il centrodestra sulla questione si dimostra diviso. Per Silvio Berlusconi rifiutare sarebbe un atto di "assoluto masochismo per noi ed anche un imperdonabile sfregio all'Europa".

Al leader di Forza Italia risponde quello della Lega, Matteo Salvini, che in visita a Castel Volturno dice: "Portino in aula il Mes e vediamo cosa voterà il Parlamento, che è sovrano. Penso che la maggioranza sia assolutamente a favore dell'interesse nazionale - taglia corto - l'importante è il voto, portino il Mes in Parlamento e vediamo che succede".

Francesco Lollobrigida, conferma infine la linea di Fratelli d'Italia: "In Europa c'è chi vorrebbe ricattarci per costringerci ad aderire al Mes. E in Italia c'è chi è disponibile ad accettare il ricatto. Fratelli d'Italia chiede che il Parlamento voti per evitare questo strumento inutile e dannoso", dice il capogruppo alla Camera del partito di Giorgia Meloni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Il peggio della crisi sanitaria del Covid-19 e della caduta del Pil è passato, ma per evitare gravi conseguenze sociali e un aumento delle divergenze fra le economie dei paesi europei bisogna ora varare al più presto il Piano di rilancio comune presentato dalla Commissione europea, per garantire una forte ripresa economica in tutti gli Stati membri». Lo ha affermato il commissario europeo agli Affari economici e finanziari, Paolo Gentiloni, rispondendo oggi a Bruxelles ad alcuni giornalisti italiani, a margine della sua conferenza stampa sulla presentazione delle Previsioni economiche d'estate dell'Esecutivo comunitario.

«Il peggio è passato senz'altro dal punto di vista della pandemia, e dal punto di vista delle cifre del Prodotto interno lordo, che hanno avuto ovviamente una caduta enorme nel primo e nel secondo trimestre di quest'anno, e che si riprenderanno nei prossimi trimestri», ha rilevato Gentiloni.


“Basta Troika, la Grecia non accetterà intromissione europee all'interno degli indirizzi economici del Paese”. Con questa parole lo stesso premier greco Kyriakos Mitsotakis ha respinto ogni possibilità che Bruxelles possa intervenire all'interno del processo decisionale sulle questioni economiche della Grecia, ottenendo al contempo lo stesso supporto della quasi totalità della popolazione.  

Spagna, Portogallo e Grecia dicono No al Mes. Almeno per ora, i tre governi del blocco meridionale Ue - di cui fa parte anche l’Italia - sono dell’idea che non ci siano le condizioni per ricorrere alla nuova linea di credito messa a punto dal Fondo Salva-Stati per affrontare l’emergenza sanitaria del Covid. Il Mes è stato al centro di un lungo negoziato tra i Paesi del Sud e quelli del Nord Europa per inserirlo nel ventaglio degli strumenti da utilizzare contro la crisi economica. Il compromesso, com’è noto, prevede un prestito massimo del 2% del Pil da impiegare solo per le spese sanitarie dirette o indirette per il coronavirus, ma con una sospensione temporanea - seppur non regolata giuridicamente - delle condizionalità per i Paesi che ne richiedono l’attivazione.  

Negli ultimi mesi, tante le rassicurazioni sul fatto che non c’è nessuna trappola in vista eppure la diffidenza resta. Ultimo a intervenire “sponsorizzando” il Mes, è stato nelle scorse ore il Direttore Klaus Regling: “L’unica condizione legata alla linea di credito anticrisi pandemica del MES sarà che il denaro fornito sia utilizzato per spese relative al settore sanitario, ai suoi costi diretti e indiretti”, e “non ci sarà nient'altro, neanche in seguito” in termini di sorveglianza finanziaria speciale; all'Italia, se deciderà di richiederlo, il prestito con scadenza a 10 anni a tassi d'interesse prossimi allo zero permetterà di risparmiare “7 miliardi di euro”.

Sono anni che difficilmente spariranno dalla memoria della popolazione della Grecia quelli caratterizzati dalle misure di austerity messe in campo dalla cosiddetta “Troika” e volte a ristrutturare l’immenso indebitamento pubblico di Atene. Dopo essere riusciti nel corso dello scorso anno a liberarsi anche dell'ultima catena che vincolava le sue manovre finanziarie all'approvazione del Fondo monetario internazionale, per il 2020 la popolazione greca avrebbe sperato in manovre espansive e soprattutto decise esclusivamente da coloro che avevano ottenuto i propri voti. Ma con le ultime misure messe in campo dall’Unione europea, adesso si palesa la possibilità che ancora una per una volta le cose non andranno in questo modo, ma per il popolo greco questa volta potrebbe davvero essere troppo.  

Presentato e “impacchettato” per bene, il MES non sembra riscuotere, almeno per ora, l’atteso successo con Spagna, Portogallo e Grecia che hanno già declinato “l’invito”. Allo stato attuale, i governi del blocco meridionale Ue – di cui fa parte anche il nostro Paese – ritengono che non ci siano le condizioni per ricorrere alla nuova linea di credito messa a punto dal Fondo Salva-Stati per affrontare l’emergenza sanitaria.

Impossibile, quando si parla di Mes, non tirare in ballo la Grecia che ha fatto sapere di non essere interessata. Visto il rapporto di certo non amorevole con lo strumento, come dargli torto.

Sulla linea del no, saldamente anche Madrid ha fatto sapere che al momento non farà ricorso fondo guidato dal tedesco Klaus Regling. Nelle scorse ore, anche il governo di Lisbona ha escluso la possibilità di ricorrere al Mes.

Stando a quanto dichiarato da Mitsotakis e riportato dalla testata britannica Financial Times, nel corso di questi anni i greci sarebbero infatti maturati molto e sarebbe corretto se le decisioni volte a sostenere l'economia e le famiglie fossero prese esclusivamente da Atene. Soprattutto, anche per dimostrare come il Paese si sia ormai lasciato alle spalle gli anni bui che lo avevano portato sull’orlo della bancarotta, obbligandolo a subire quasi un decennio di controllo da parte della Troika. E in fin dei conti, tale prerogativa sarebbe nell’interesse anche della stessa Europa, che potrebbe in questo valutare la stessa affidabilità di Atene.
Europa, il pericolo viene dalla Grecia

La Grecia, unico Paese Ue ad avere un debito/Pil superiore all’Italia (per note ragioni) ha fatto sapere ieri che non è interessata al Mes, con il quale ha già in corso un rapporto - in passato non proprio affettuoso  - e destinato a durare fino al 2070. Il ministro delle Finanze di Atene Christos Staikouras ha affermato a Skai Tv che la Grecia, della nuova linea di credito pandemica, “attualmente non ha bisogno” in base ai dati economici attuali. Secondo le previsioni economiche di primavera della Commissione Ue, Atene sarà il Paese che subirà il contraccolpo economico più forte per il Covid, con un crollo del Pil del 9,7% nel 2020, superiore persino all’Italia. Ciò non toglie che in futuro possa essere utilizzato, se le condizioni dovessero peggiorare.

Il Governo italiano è molto diviso al suo interno sul ricorso al Fondo Salva-Stati. Altrove, dove il dibattito pubblico tocca punte meno drammatiche, non è così. Dare uno sguardo ai Paesi vicini tuttavia può essere utile, dal momento che una eventuale richiesta solitaria di un Paese rischia di consegnare un pessimo messaggio ai mercati sulla sua capacità di finanziarsi autonomamente nell’immediato futuro, il cosiddetto stigma. Il Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, in una intervista alla Stampa, ha convenuto sul fatto che una richiesta di gruppo potrebbe essere un buon segnale.  

Nei giorni scorsi anche Madrid ha fatto sapere che al momento non intende rivolgersi al fondo guidato dal tedesco Klaus Regling. Già il 23 aprile, quando il Consiglio Ue ha approvato l’accordo sul Mes pandemico, la ministra degli Esteri spagnola Arancha González Laya aveva assicurato che la Spagna non aveva intenzione di attivarlo. Il dubbio era nato dopo le parole del premier italiano Giuseppe Conte che, per giustificare il mancato veto al Fondo Salva-Stati durante gli accesi negoziati con il blocco del Nord, disse che così facendo avrebbe fatto “un torto alla Spagna che è interessata”. Sulla questione la ministra dell’Economia Nadia Calvino ha lasciato intendere che al momento non se ne parla: “Noi abbiamo buone condizioni di mercato e finora non abbiamo nessun problema di accesso ai mercati finanziari”, ha detto a Bloomberg Tv.  Ha poi aggiunto che comunque ”è bene avere una rete protettiva per i cittadini, la società e i governi contro l’epidemia”. Anche Madrid al momento non si espone sul futuro, ma per il presente l’orientamento è chiaro: non ce n’è bisogno. Eppure, secondo i calcoli di Regling, le casse spagnole potrebbero risparmiare due miliardi in dieci anni. Per la ministra delle Finanze María Jesús Montero è “positivo che esista il Mes, ma in questo momento il Governo trova una buona accoglienza sul mercato del debito”.

Infine il Portogallo. Venerdì scorso il governo di Lisbona ha escluso la possibilità di ricorrere al Mes: “Le linee precauzionali sono destinate ai Paesi che incontrano difficoltà finanziarie sui mercati e il Portogallo, a causa degli aggiustamenti fatti negli anni passati, in questo momento ce l’ha, regolare e anche abbastanza favorevole. Ora, quindi, non sembra che l’attivazione di una linea di credito del Mes abbia senso”, ha affermato Ricardo Mourinho Félix, viceministro e segretario di Stato alle Finanze. Insomma, “può essere utilizzato in situazione di necessità, ma non è questo il caso”.

Spesso la Grecia e considerata ai margini dell’Unione sia per il suo ridotto Pil pubblico che per la sua collocazione geografica, la Grecia ha dimostrato però in questi anni di essere un punto cruciale all’interno di quasi tutti i discorsi di Bruxelles. In parte a causa della questione migratoria dettata dal confine con la Turchia e in parte in quanto primo vero e proprio “esperimento” di controllo economico diretto da parte dell’Unione europea, Atene ha comunque svolto in modo quasi impeccabile il proprio lavoro. Tuttavia, ciò era costato la fatica e il sudore della fronte di tutta la popolazione ellenica, de facto immolata per salvare i bilanci pubblici del Paese e costretta a subire una stagione di austerity che ancora oggi ha lasciato aperto molte ferite. Adesso, però, la popolazione è arrivata allo stremo delle proprie forze e dopo aver ottemperato ai propri doveri è giunto il momento di esigere i propri diritti. Ma sarà Bruxelles intenzionata a darli, oppure uno scontro è proprio dietro l’angolo?

In questo modo, dunque, si e palese forse per la prima volta la possibilità di una “rottura” di dialogo tra la Grecia e Bruxelles, qualora le due istituzioni rimanessero fisse sulle proprie posizioni. Tuttavia, la stessa Grecia in questo modo avrebbe una potente arma nei confronti degli alti palazzi dell’Europa: il dissenso. Strumento che, se ben ponderato, può causare notevoli problemi a Bruxelles, in quanto facilmente emulabile anche in altre occasioni da parte degli altri Paesi aderenti all’Unione europea. In uno scenario che, sul lungo periodo, diviene particolarmente pericoloso per la stessa stabilità comunitaria, fondata sull’approvazione e sull’esecuzione (teorica) all’unisono delle direttive (senza lasciare spesso troppi spazi al dissenso).

Intanto la Grecia oltre la battaglia del mes e il suo rifiuto alla troika, ha ripreso una battaglia religiosa ma anche culturale, ma questa volta ha al suo fianco la Russia di Putin,
Il progetto di Erdogan di convertire la chiesa ortodossa Ellenica e ora museo in Moschea ha immediatamente sollevato le proteste di Atene,  che è anche la sede di uno dei Patriarcati ortodossi, quindi si sente direttamente colpito dalla decisione turca. Però questa volta la Grecia non è stata lasciata sola. Anche la Russia ha reagito, con sia con il Cremlino che attraverso il Patriarca ortodosso russo Kirill ed entrambi hanno condannato ogni possibile mossa per trasformare Hagia Sophia in una moschea.  

La Chiesa ortodossa russa ha definito la potenziale mossa turca “Inaccettabile” e “Una violazione della libertà religiosa“. La dichiarazione diceva: “Non possiamo tornare al Medioevo ora” – riferendosi a secoli in cui la politica ottomana reprimeva severamente i cristiani in tutta l’Asia Minore.  

 Nell’epoca zarista  Mosca , la “Terza Roma” dopo Roma stessa e Costantinopoli, si considerava come massima protettrice dei cristiani ortodossi in tutto il mondo. Questa sua pretese ha condotto dell'ottocento allo scoppio della Guerra di Crimea contro l’allora Impero Ottomano appoggiato da Regno Unito, Francia e Piemonte. La nascita dell'area Unione Sovietica aveva fatto cessare questa pretesa, ma ora la nuova Russia di Putin sembra tornare alla politica imperiale di appoggio alla religione ortodossa, come dimostrano le ricostruzioni delle Basiliche a Mosca, buona ultima quella impressionante dell’Esercito. Questo nuovo fronte si aggiunge a quelli di scontro turco-russo, già caldi, come la Siria e la Libia, viene anche a creare una nuova alleanza cristiana che si oppone culturalmente ad Erdogan. Cosa fa l’Italia? Il pesce nel barile, schiacciata fra la vicinanza culturale ai cristiani, l'essere nella NATO con la Turchia e l'incapacità generale del  governo Conte nel gestire gli affari internazionali.  

Cosi a decisione del presidente turco Erdogan di convertire la basilica di Santa Sofia, una delle più antiche della Cristianità., da Museo  a moschea, ridandole un valore di carattere religioso, ma opposto alle sue origini, sta muovendo tutto il mondo cristiano, soprattutto quello Ortodosso, ricreando legami che si pensavano persi o indeboliti. Ricordiamo che Santa Sofia fu costruita dall'imperatore Giustiniano nel V secolo , quindi convertita in Moschea dopo la caduta della città in mano turche nel 1453, quindi trasformata in un museo dal Mustapha Kemal nel 1935, nell’ambito del processo di laicizzazione e modernizzazione della Turchia dopo la caduta della monarchia ottomana.

“Speriamo in ogni caso che venga preso in considerazione lo status di Hagia Sophia come sito del patrimonio culturale mondiale“, ha detto un portavoce del Cremlino lunedì.


“Certo, questo è un capolavoro mondiale amato dai turisti che vengono in Turchia da tutto il mondo , e soprattutto dai turisti russi che ne riconoscono non solo il valore turistico di Hagia Sophia, ma anche il sacro valore spirituale“, ha aggiunto.
Si dice che la corte suprema della Turchia stia ancora discutendo della mossa del presidente. Ci sono ancora decine di migliaia di cristiani che vivono  ad Istanbul e in alcune parti dell’Anatolia, principalmente greci, siriaci e alcuni pochi cristiani armeni rimasti. Queste antiche comunità affermano che Erdogan ha recentemente scatenato una guerra di religione contro di loro per la completa islamizzazione del paese, ma sono, ovviamente, completamente inascoltati dalla comunità internazionale che difende qualsiasi minoranza, tranne quella dei credenti in Cristo.

 

 

 

 

“Se è così conveniente come ci racconta la sinistra perché nessuno Stato se lo prende il Mes?”. La domanda retorica e capziosa la pone Giorgia Meloni intervistata da Libero, rilanciando così uno dei luoghi comuni più propinato a destra e a manca dal fronte sovranista, Salvini in primis. Il sottotesto è abbastanza intuibile: se nessuno stato europeo finora ha deciso di attivare il fondo Salva-Stati per rispondere all'emergenza Covid, allora vuol dire che da qualche parte c'è la fregatura. E che quindi l'Italia farebbe bene a stare alla larga da quei 37 miliardi di prestiti apparentemente facilmente richiedibili. In realtà, sono almeno due le motivazioni per cui finora in Europa i paesi più a corto di soldi non hanno “acceso un mutuo” col Mes. Una economica e una più politica.

La Cancelliera tedesca Angela Merkel nell'intervista a La Stampa avverte: «Il Recovery Fund non può risolvere tutti i problemi, ma non averlo rafforzerebbe il problema», e sul Mes: «Tutti possono utilizzare questi strumenti. Non li abbiamo messi a disposizione perché restino inutilizzati». Dal premier Giuseppe Conte arriva una replica imbarazzata («a fare i conti sono io»), ma, com'era facile prevedere, sul delicato tema dei 36 miliardi di euro che l'Unione europea mette a disposizione dell'Italia per rafforzare il sistema sanitario esplode la polemica politica. Con il centrodestra che si spacca, e il Pd che spinge per cogliere l’opportunità.

«Il fatto che la Germania tifi Mes per l’Italia è l'ennesima riprova che il Mes è una fregatura o una “sola”, come si dice a Roma», dice il leader della Lega Matteo Salvini. «Lo stanno rifiutando tutti, dalla Grecia alla Spagna e alla Francia - ha aggiunto - la Merkel si occupi di Germania che all'Italia ci pensiamo noi». Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, rincara la dose: «In Parlamento vedremo chi sarà con noi e chi invece ci vuole consegnare alla troika. La posizione di Fratelli d'Italia è chiara: il Mes è una trappola, e l'Italia non deve caderci dentro».

Il Meccanismo europeo di stabilità divide la politica italiana in due schieramenti contrapposti: Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Italia Viva e una parte del Pd sono favorevoli all'attivazione del Mes. Il Premier Conte, M5s, Lega e Fratelli d'Italia invece sono nettamente contrari.

Non sarà una scelta semplice considerando che l’opposizione agli eurobond da parte della Germania e altri paesi europei, sembra insuperabile. Sarà molto importante il prossimo Consiglio europeo del 23 aprile nel quale verrà formalizzato l’indirizzo politico sui nuovi strumenti finanziari anti-Covid a livello comunitario.

La pagina Facebook di Matteo Salvini che conta più di 4 milioni di follower, ha persino pubblicato il video “Giù le mani dall'Italia. No Mes. Il futuro non è in vendita” come cover, ossia il contenuto con il massimo impatto e visibilità della pagina. Un video che ha già ottenuto più di mezzo milione di visualizzazioni.

Intanto non si placano i mal di pancia nella politica italiana sull'eventuale ricorso a linee di credito “light” del Meccanismo di Stabilità Europea (Mes), strumento subito accessibile, ma che pesa sul debito pubblico dei Paesi che lo richiedono. E il tema, nelle ultime ore, sembra aver spaccato la maggioranza. Una polemica che ha richiesto l'intervento del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

La posizione sul Mes è stata ampiamente illustrata dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha opportunamente sottolineato l'inadeguatezza del meccanismo a rispondere all’eccezionalità dell’emergenza prodotta dal coronavirus”, ha detto Gianluca Perilli, capogruppo M5s al Senato.

A mettere in discussione questa linea, nelle ultime ore, sono stati alcuni esponenti dem in Parlamento. Come il capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci: “È cassa disponibile e bisogna accedervi”, ha affermato in una intervista a Repubblica. “Legarsi alla terminologia senza andare a vedere che cosa è cambiato, vuol dire rifiutare l’oggettività dei risultati ottenuti da Conte, che è riuscito a fare una rivoluzione. Il Mes ora è a disposizione dei Paesi su interventi prioritari nel campo sanitario senza condizionamenti”, ha spiegato.
 
“Il Movimento 5 Stelle, pertanto, continua a riconoscersi in questa posizione, a maggior ragione se si considerano i grandi fattori di rischio sottesi al Mes, come sottolineato in un'intervista del nostro capo politico, Vito Crimi, apparsa sulla stampa”.

Intervenendo nel dibattito, il premier Giuseppe Conte ha quindi invitato la maggioranza a “non logorarsi in un dibattito astratto” sulla convenienza del Mes e sulla presenza o meno delle condizionalità per l’accesso. “Se vi saranno condizionalità o meno lo giudicheremo alla fine”, ha puntualizzato, incassando il sostegno di Dario Franceschini e Alfonso Bonafede, alla guida delle delegazioni di Pd e M5S al governo.

Una decina di grillini al Senato non voterà il Mes. E visti i numeri già a rischio in quel ramo del Parlamento il premier Giuseppe Conte ha deciso di spostare tutto a settembre. Il Pd non è troppo felice e lo ha fatto presente al presidente del Consiglio ma la verità è che nonostante i proclami non farà certo le barricate. La speranza di tutti è che dopo agosto qualche voto in più possa arrivare. E salvare la maggioranza

 

 

 

 

 

Da un po’ di tempo i rapporti tra Francia e Turchia sono molto tesi, soprattutto a causa della guerra in Libia, nella quale i due paesi sono schierati su fronti diversi: il governo francese appoggia il maresciallo Khalifa Haftar, mentre quello turco ha mandato soldati e armi in aiuto del primo ministro Fayez al Serraj, a capo dell’unico governo riconosciuto dall’ONU. La tensione tra Francia e Turchia, però, non riguarda solo i due governi coinvolti: entrambi i paesi sono infatti membri della NATO, alleanza militare di cui fa parte anche l’Italia, e che sta attraversando un momento piuttosto complicato per diverse ragioni, tra cui gli atteggiamenti ambivalenti del presidente statunitense Donald Trump.


I motivi dello scontro vanno oltre questa vicenda specifica. L'atteggiamento della Francia sembra determinato dalla situazione in Libia, però in ballo c’è soprattutto l'influenza turca nel Mediterraneo e l’ambizione di Ankara di rivedere la spartizione delle zone economiche marittime e delle possibili risorse di gas, a spese di alcuni paesi dell'Ue come la Grecia o Cipro. La Francia, insomma, si propone come portavoce degli interessi europei davanti a un malcelato espansionismo turco.

In questo momento la Nato mostra diverse contraddizioni. Per molto tempo l'alleanza militare ha permesso di smorzare gli antagonismi, incluso quello tra Grecia e Turchia. Tuttavia le incoerenze dell’amministrazione Trump hanno trasformato la Nato in una nave alla deriva, tanto che l'anno scorso Emmanuel Macron aveva parlato di “stato di morte cerebrale” dell’alleanza

L'episodio che ha fatto precipitare i rapporti tra Francia e Turchia si è verificato il 10 giugno al largo delle coste libiche, quando la fregata francese Courbet ha cercato di ispezionare la nave turca Cirkin, battente bandiera della Tanzania, per verificare se stesse trasportando armi. Il mercantile Cirkin che ha già effettuato la spola tra porti turchi e libici almeno quattro volte scaricando in Libia armi, munizioni ed equipaggiamenti in palese violazione dell’embargo dell’ONU.  A quel tempo la Courbet stava prendendo parte a una particolare operazione della NATO, Operation Sea Guardian, che tra le altre cose ha l'obiettivo di garantire la libertà di navigazione e di compiere operazioni legate all’antiterrorismo marittimo. Quello che è successo dopo è oggetto di disputa tra Francia e Turchia.

Irritata per l'assenza di sostegno da parte della Nato nella vicenda libica, la Francia ha deciso di sospendere la propria partecipazione all'operazione navale “Sea Guardian” nel Mediterraneo a seguito degli attriti con la Turchia. La decisione di Parigi è stata notificata ieri al Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e agli alleati

Una decisione che arriva dopo l'incidente del 10 giugno scorso al largo della Libia tra la fregata francese Courbet (F-712 classe La Fayette nella foto d'apertura) e la fregata turca Oruçreis (F-245 classe Barbaros tipo Meko 200TN nella foto a lato). La Nato ha avviato un’indagine sulla vicenda ma finora nessuna critica o condanna è stata mossa dall’Alleanza alle violazioni turche dell’embargo sulle armi alla Libia.  

Secondo la ricostruzione del ministero della Difesa francese, la Courbet è stata fatta oggetto di tre ‘illuminazioni radar’ da parte della fregata turca mentre cercava di identificare un cargo sospettato di trasportare armi in Libia. “Un atto estremamente aggressivo che non può essere quello di un alleato nei confronti di una nave Nato”, aveva denunciato il ministero francese prima della protesta presentata dal ministro Florence Parly al vertice dell'Alleanza di metà giugno.

Lunedì scorso, il presidente francese Emmanuel Macron ha accusato la Turchia di “responsabilità criminale” nel conflitto in Libia, che vede Ankara schierata con il governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite.

A sua volta Ankara ha denunciato l’approccio “distruttivo” della Francia in Libia.  Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha affermato che la Francia nega i suoi rapporti con il generale Khalifa Haftar, ma sta trasferendo denaro dagli Emirati Arabi Uniti per sostenerlo.

Per Cavusoglu “la Nato vede la Russia come una minaccia, ma la Francia, alleata della Nato, sta facendo sforzi per rafforzare la presenza russa in Libia”.

La Francia ha apertamente appoggiato il maresciallo Haftar, accusato tra l’altro di avere iniziato ad aprile dello scorso anno l’offensiva militare contro Tripoli a pochi giorni da un'importante conferenza internazionale di pace organizzata proprio dall’ONU. La situazione si è complicata a gennaio 2020, con l'intervento della Turchia. Il governo turco ha mandato in Libia soldati turchi, miliziani arabi siriani che combattono a fianco della Turchia nel nord della Siria, e molte armi in aiuto a Serraj, cambiando radicalmente le sorti della guerra e costringendo Haftar a una rapida ritirata.

La tensione tra Francia e Turchia, comunque, non è nuova e non riguarda solo la Libia. Da tempo la Francia appoggia la Grecia e Cipro nella disputa con la Turchia per lo sfruttamento del gas naturale nel Mediterraneo orientale. Il governo francese, inoltre, si era duramente opposto all’ultima offensiva militare turca nel nord della Siria, iniziata nell’ottobre 2019 con l'obiettivo di colpire i curdi siriani, che la Turchia accusava di essere terroristi e di essere legati al PKK turco. In quel momento la Francia era presente nel nordest della Siria con circa 200 soldati, che collaboravano proprio con i curdi siriani nella guerra contro l’ISIS.

Parigi sponsorizza già il sistema geopolitico composto da Grecia, Egitto e Cipro (e più lateralmente Israele) creato attorno a un gasdotto, EastMed, la cui sostenibilità economica per varie ragioni diventa sempre più irrealizzabile, ma il cui valore politico è stato quello di magnetizzare quegli stati contro Ankara. Il blocco è di per sé un esempio di meccanismi di contenimento, su cui però Parigi soffre una distanza da parte dell’Ue.

Macron ha aperto anche la partita del gas contro la Turchia, con l'idea di trasformare l’Egitto nell’hub per il Gnl da spedire in Europa via Mediterraneo – sfruttando il surplus che le recenti scoperte nelle acque del Mediterraneo orientale hanno prodotto. La Turchia ha ambizioni analoghe, ma sfruttando le linee che vengono da Est, come il collegamento Tanap con l’Azerbaijan, e sperando che le proiezioni geofisiche al largo della Libia (avviate per accordo con il Gna ma non realizzabili perché passano attraverso la Grecia) e le esplorazioni a Cipro del nord che la Turchia tiene militarmente da 1974 un pezzo dell'UE, permettono di alzare lo status del Paese a produttore.

I problemi tra Francia e Turchia potrebbero diventare anche problemi per la NATO. Jonathan Marcus, giornalista di BBC che si occupa di difesa e sicurezza, ha scritto che «la Turchia sta diventando rapidamente un sassolino nella scarpa della NATO», e non solo per le operazioni militari in Libia e in Siria.
 
Alla fine del 2017 la Turchia aveva acquistato il sofisticato sistema missilistico russo S-400, il più avanzato tra quelli di cui dispone la Russia, che aveva provocato le feroci proteste degli Stati Uniti. Il governo americano aveva detto che il sistema missilistico S-400 era incompatibile con i sistemi NATO, e aveva aggiunto che il fatto che la Turchia operasse con entrambi i sistemi avrebbe potuto far sì che i russi avessero accesso ad alcune tecnologie segrete relative al funzionamento degli aerei statunitensi. Nel luglio 2019 gli Stati Uniti avevano confermato di avere escluso la Turchia dal loro programma sugli aerei da guerra F-35.

Sarà il Consiglio di Stato di Turchia a determinare la sorte del complesso di Santa Sofia a Istanbul, secondo quanto dichiarato nei giorni scorsi dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il presidente della Turchia ha affermato che il Consiglio di Stato si esprimerà domani 2 luglio sulla possibilità che Santa Sofia - ora museo statale e patrimonio Unesco - venga ritrasformata in edificio di culto come moschea. Erdogan ha più volte espresso la volontà di riconvertire l'edificio, inizialmente costruito come cattedrale nell'allora impero romano d'Oriente nel 537, tramutato in moschea il 29 maggio 1453 e poi in museo nel 1935. Il 29 maggio scorso, presso il museo di Santa Sofia si è tenuta la lettura di una sura del Corano e una sessione di preghiera per ricordare il 567mo anniversario della conquista ottomana di Costantinopoli. I disegni di Erdogan sul futuro di Santa Sofia incontrano l'opposizione delle frange più secolari della popolazione turca. (Res)

Santa Sofia  è uno dei principali monumenti di Istanbul. Si trova nel distretto di Fatih, nel mahalle di Sultanahmet. Dedicato alla Sophia (la sapienza di Dio), dal 537 al 1453 l’edificio fu cattedrale Greco-cattolica e poi ortodossa e sede del Patriarcato di Costantinopoli, a eccezione di un breve periodo tra il 1204 e il 1261, quando fu convertito dai crociati a cattedrale cattolica di rito romano sotto l'Impero latino di Costantinopoli.

Ortodossi e Stati Uniti contro la conversione in moschea di Hagia Sophia L’ex cattedrale di Santa Sofia ha funto da sede e simbolo della cristianità ortodossa dal 537 al 1453, rappresentando la massima espressione dell'architettura bizantina ed il cuore dell’impero romano d'oriente. Dopo la presa di Costantinopoli, l'edificio fu trasformato in moschea e tale rimase fino alla fine dell’era ottomana e all'ascesa della repubblica. Kemal Ataturk, il padre della Turchia moderna, laica e con lo sguardo rivolto ad Occidente, decise di convertirla in un museo per mostrare agli alleati europei quanto fosse netta la rottura con il passato.

Secondo Pompeo, mantenendo lo status di museo Santa Sofia continuerebbe a essere per la Turchia "un esempio del suo impegno al rispetto delle tradizioni religiose e delle diverse storie che hanno contributo alla Repubblica di Turchia" e rimarrebbe accessibile a tutti. "Gli Stati Uniti considerano il cambio di status di Santa Sofia come un danno all'eredità di questo edificio notevole e di un'abilità non superata, così raro nel mondo moderno, nell'ottica di servire l'umanità come un quanto mai necessario ponte tra coloro che appartengono a differenti tradizioni religiose e culture", ha affermato Pompeo
 
Con una mossa che ha scioccato gli Stati Uniti e la Chiesa greco-ortodossa, il presidente Recep Tayyip Erdogan vuole convertire di nuovo l'edificio al culto musulmano. Già per la festa che celebra la conquista di Costantinopoli da parte degli ottomani, il 29 maggio, il leader turco ha consentito che fra le sue mura si tenesse di nuovo la preghiera. Erdogan spera di mantenere il sostegno dei conservatori e forse anche distrarre dai guai economici innescati dal coronavirus. Il crollo del turismo, in particolare, ha colpito con durezza proprio Istanbul, la città natale del presidente e la sua base di consenso maggiore. Ma sia il Dipartimento di Stato americano che la chiesa greco-ortodossa hanno esortato Erdogan a riconsiderare il piano.

Hagia Sophia ha un «significato spirituale e culturale per miliardi di credenti in differenti fedi in tutto il mondo», ha sottolineato l'ambasciatore del dipartimento di Stato per la libertà religiosa: «Chiediamo al governo turco di mantenerla come patrimonio dell'Unesco e nello stato attuale di museo». Il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I ha ribadito invece al Washington Post che è «rattristato» dalla proposta di conversione. Ma per il presidente dell’Akp, Numan Kurtulmus, l’edificio «è la prova delle nostre rivendicazioni in questa regione, è la spada del nostro diritto di conquista». Il riferimento è all’usanza ottomana di convertire in moschea il principale tempio di una città quando veniva conquistata.

Lo status laico della struttura ha iniziato a diventare fonte di insofferenza per una parte dell'opinione pubblica e del mondo politico nell'ultimo decennio, in concomitanza con la progressiva re-islamizzazione della società portata avanti dall’Akp. Gli eventi ed i segnali che hanno preceduto la storica decisione di Erdogan sono stati molteplici: dal 2013 ai muezzin è consentito cantare internamente il richiamo alla preghiera (adhān) dai minareti dell'edificio per due volte al giorno, il 1 luglio 2016 è stato consentito l'utilizzo dei minareti per cantare il primo adhān rivolto all'intera città in occasione della notte del destino (Laylat al-Qadr), per la prima volta in 85 anni, mentre il 13 maggio ed il 21 giugno 2017 hanno avuto luogo, rispettivamente, una grande manifestazione dell’Anatolia Youth Association dinanzi l’edificio per chiederne il ritorno a moschea e la recita del Corano al suo interno in diretta televisiva, su Trt, sempre in occasione della notte del destino

Il 27 marzo dell'anno successivo viene dato l'annuncio storico da Erdogan in persona: Santa Sofia sarà convertita in moschea. La proposta del presidente turco, però, riceve un primo ed importante stop dall'Unesco: essendo la struttura in questione un patrimonio dell’umanità ed essendo la Turchia contraente della convenzione per la protezione del patrimonio mondiale, qualsiasi proposta di modifica dovrà prima essere sottoposta all’attenzione dell’ente e ricevere da questi l’approvazione.

La prima reazione alla notizia della riconversione, quando ancora era a livello ufficioso, è arrivata da Atene, dove si continua a ritenere il complesso di Santa Sofia come un elemento caratterizzante dell'identità nazionale greco-ortodossa. Era stata proprio questa intromissione a spingere il presidente turco ad apparire in televisione, sui canali Trt, per rompere il silenzio e confermare le indiscrezioni, condendo il tutto con delle minacce: “Stanno dicendo: Non trasformare Santa Sofia in una moschea. Comandate voi la Turchia, o noi comandiamo la Turchia? Non è la Grecia ad amministrare questa terra, perciò dovrebbe evitare di fare simili commenti. Se la Grecia non sa qual è il suo posto, la Turchia saprà come rispondere”.

Il giugno si è consumata l'ennesima forzatura: per la prima volta un imam ha condotto la lettura del Corano all'interno della basilica, per di più in diretta televisiva nazionale, come a sigillare il gesto di fronte a tutti gli abitanti della grande nazione. Istanbul è sede del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, una delle cinque sedi principali stabilite dal concilio di Calcedonia del 451, e le reazioni da questo fronte non si sono fatte attendere: i vertici della Chiesa greco-ortodossa hanno definito il gesto una “incredibile provocazione”. Secondo il governo di Atene, “un atto anacronistico e incomprensibile, che dimostra mancanza di rispetto verso i cristiani ortodossi di tutto il mondo”.

Il piano di Erdogan, com'era prevedibile, ha ottenuto, da una parte, l'effetto di avvicinare l'intero mondo politico turco all’Akp e, dall'altra, di provocare la reazione della cristianità ortodossa, le cui chiese hanno iniziato ad esercitare pressioni sui rispettivi governi affinché, a loro volta, si rivolgessero ad Ankara. L’8 giugno, l'influente metropolita Hilarion, direttore del dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca, ha spiegato ai microfoni di Rossiya-24 che “ogni tentativo di cambiare lo status di museo della cattedrale di Santa Sofia condurrà a dei cambiamenti che romperanno il fragile equilibrio inter-confessionale, oggi esistente”. Hilarion ha auspicato, quindi, che la struttura continui a conservare la sua condizione museale e che non venga riconvertita in moschea.

Simili, ma più pesanti, dichiarazioni sono state rilasciate il 30 giugno dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, che ha avvisato Ankara delle possibili ripercussioni dell’evento dal punto di vista della convivenza fra cristiani e musulmani in tutto il pianeta: “La potenziale conversione di Santa Sofia in una moschea metterà milioni di cristiani in tutto il mondo contro l’islam”.

La Casa Bianca non è rimasta indifferente alle richieste di aiuto delle chiese orientali, anche perché Donald Trump ha cercato di presentarsi come un difensore della cristianità sin dalla campagna elettorale del 2016. Il 25 giugno, Sam Brownback, l'ambasciatore degli Stati Uniti per la libertà religiosa nel mondo, ha utilizzato Twitter per inviare un messaggio ad Ankara: “Santa Sofia è rivestita di un enorme significato spirituale e culturale per miliardi di credenti di diverse fedi in tutto il mondo. Ci appelliamo al governo della Turchia affinché ne preservi lo status di patrimonio dell'umanità Unesco e la mantenga accessibile a chiunque come museo”.

La risposta del governo turco è arrivata il giorno successivo per voce del viceministro degli esteri, Yavuz Selim Kıran, che ha replicato così al tweet di Brownback: “Hagia Sofia è un dono di Maometto II. Ogni decisione sul suo utilizzo è un nostro affare interno”.

Haghìa Sophia. E’davvero un luogo straordinario e unico al mondo: qui cadde nel 1453 l’Impero Romano d’Oriente. Da allora le croci sono state cancellate o rimosse e molti mosaici sono stati stuccati e coperti dalle eleganti decorazioni delle moschee. Si trova esattamente di fronte alla moschea Blu, motivo per cui si decise “politicamente” di trasformare la Basilica in un museo che oggi rappresenta la sintesi di due universi culturali: Islam e Cristianesimo. Un equilibrio delicato che oggi, rischia di essere sbilanciato dai venti politici che vorrebbero farla ritornare moschea.

Aya Sofya fu fatta costruire da Costantino come cattedrale della nuova capitale, ma fu conclusa solo dopo la sua morte, al tempo di Costanzo II che la fece ingrandire e diventare chiesa episcopale di Costantinopoli. Dopo un incendio fu riedificata da Teodosio II, e riconsacrata nel 415. Della basilica teodosiana sussiste ancora un piccolo edificio circolare laterale, la sacrestia. Nel 532, Giustiniano I, dopo l’incendio scoppiato in seguito alla rivolta di Nika, si impegnò a ricostruire la Basilica come la “più sontuosa dall’epoca della Creazione”.

Fu l’imperatrice bizantina Teodora, moglie di Giustiniano, ad insistere perché la Basilica di Santa Sofia fosse ricostruita ancora più grande, occupando anche parte dello spazio dell’Ippodromo di Costantinopoli, nel quale aveva avuto luogo la rivolta contro il marito. Giustiniano la accontentò. Fece arrivare materiale prezioso da ogni parte dell’impero: otto colonne di marmo verde da Efeso, otto colonne di porfido dal Tempio di Giove Eliopolitano di Baalbek, altre colonne di granito dall’Egitto.

Mise in campo squadre di diecimila operai al seguito degli architetti Artemio di Tralle (Aydin) – patrizio di Costantinopoli che l’impero durante la minorità di Teodosio II – e Isidoro di Mileto il vecchio, famoso architetto e matematico e fu incaricato da Giustiniano anche del restauro delle mura di Dara in Siria. L’imperatore stesso partecipò alla costruzione della Basilica suggerendo varie soluzioni ai problemi pratici incontrati. Per costruire la cupola, Giustiniano fece arrivare da Rodi mattoni di una terra particolarmente leggera, sui quali era scritto: “È Dio che l’ha fondata, Dio le recherà soccorso”.

La meravigliosa Basilica fu completata il 27 dicembre del 537. Per quattordici giorni si susseguirono le preghiere, le celebrazioni e le distribuzioni pubbliche di denaro. Si tramanda che, alla consacrazione della chiesa, l'imperatore disse: “Gloria a Dio che mi ha fatto degno di questo! Ti ho superato, oh Salomone!”. L’incoronazione dell’imperatore si svolgeva nell’ambone. Il primo ad essere incoronato in Santa Sofia fu Costante II nel 641 mentre il primo a ricevere la corona dalle mani del patriarca fu invece Leone I nel 457. Il trono veniva posto per l'occasione al centro dell’ombelico di porpora, una grande lastra di porfido circolare, circondata da altri dischi di colore diverso, a opus alexandrinum ancora visibile nella parte sudoccidentale della navata. Durante la Quarta crociata, con la presa di Costantinopoli nel 1203, Hagia Sophia venne saccheggiata e furono trafugate la Sacra Sindone, una pietra della tomba di Cristo, il latte della Vergine Maria e le ossa di numerosi santi.

Nel 1453, I Turchi conquistarono Istanbul mentre era in corso la messa del mattino. Entrarono a Santa Sofia, massacrarono la plebe, sequestrarono nobili e benestanti come merce da riscatto, uccisero i sacerdoti e fecero a pezzi l’icona sacra della Madonna, violarono la tomba del doge Enrico Dandolo (una pietra grigia, ancora visibile nella tribuna meridionale) che era stato tumulato in Santa Sofia nel 1205, e ne dispersero le spoglie.

Una leggenda racconta che quando entrarono i Turchi una parete si aprì davanti al sacerdote che vi stava officiando Messa: vi entrò con il sacro calice mentre il muro si richiudeva alle sue spalle. Sempre secondo la leggenda, ne sarebbe uscito solo quando Costantinopoli sarebbe tornata cristiana. Maometto II quando entrò a cavallo a Santa Sofia rimase senza parole, cosi come scrive lo storico Tursun Bey: “La cupola gareggia con le nove sfere del cielo [..], le pareti sono ricoperte, in luogo di intonaco, da frammenti di vetro e oro, cosicchè nessuno possa scoprirne le connessure; il pavimento è rivestito di marmi colorati tanto che chi guarda dalla terra al cielo ha l'impressione di vedere il firmamento, e chi guarda dal cielo alla terra ha l'impressione di vedere l'oceano ondoso .. Nella cupola un abile artista ha raffigurato un uomo che da qualsiasi parte lo si osservasse sembrava guardare l’osservatore”.

Erdogan a piu fronti, oltre l Agia Sophia, fascontri diplomatici con la Francia cosi tra i due Paesi, che si accusano a vicenda di giocare “un gioco pericoloso”, si sono intensificati nelle ultime settimane, con Parigi che ha puntato il dito contro Ankara per le ripetute violazioni dell’embargo Onu – peraltro denunciate anche dalla Germania – e tacciato il governo turco di essere un ostacolo al raggiungimento di un cessate il fuoco in Libia. Parigi ha anche chiesto un meccanismo di crisi che impedisca il ripetersi di un incidente tra navi da guerra turche e una imbarcazione francese nel Mediterraneo, episodio su cui sta indagando la Nato.

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