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Cinque milioni di italiani hanno difficoltà a mettere in tavola un pasto decente, 7 milioni e 600mila hanno avuto un peggioramento del tenore di vita. Il 60% degli italiani ritiene che la perdita del lavoro, o del reddito, sia un evento possibile che lo può riguardare nel prossimo anno".

È quanto emerge dal Secondo Rapporto Censis-Tendercapital sui Buoni Investimenti "La sostenibilità al tempo del primato della salute". Per quanto riguarda il gender gap, tra uomini e donne ci sono 20 punti di differenza nel tasso di occupazione e, in questo periodo, il tasso di occupazione delle donne è diminuito quasi del doppio rispetto a quello degli uomini.

l 54% delle donne che lavorano dice che in questi mesi è aumentato lo stress e la fatica, mentre tra gli uomini sono il 39%. Il rapporto evidenzia poi anche differenze generazionali: tutti i fenomeni di riduzione dell'occupazione colpiscono di più i giovani rispetto ai lavoratori adulti. Il gap generazione si è quindi ampliato. Differenze poi anche nell'accesso al web, con il 40% di famiglie a basso livello socioeconomico che non ha accesso alla rete,mentre tra le famiglie ad alto livello socioeconomico sono solo l'1,9%. Secondo il rapporto il quadro che emerge è chiaro:usciremo dalla pandemia con una società più diseguale, sia in termini di redditi e patrimoni, sia per quanto riguarda le altre differenze.

Causa dell'emergenza sanitaria, rileva lo studio 23,2 milioni di italiani hanno dovuto fronteggiare delle difficoltà con redditi familiari ridotti; 2 milioni sono già stati duramente colpiti nella prima ondata della pandemia; 9 milioni di italiani hanno integrato i redditi da familiari o banche. Oggi restare senza reddito non è più così difficile: a temerlo è il 53% delle persone a basso reddito, mentre il 42% degli italiani vede il proprio lavoro a rischio.

Dal Rapporto emerge una società in affanno, che a causa della pandemia vede ampliarsi le disparità. Così la sostenibilità sociale, che si intreccia con quella ambientale ed economica, in futuro non potrà più affidarsi al solo intervento dello Stato, ma dovrà contare sui buoni investimenti di una finanza capace di trasferire risparmi all'impatto sociale, con imprese che operano come una comunità. È significativo il fatto che l'82,3% degli italiani sia favorevole a misure che impongono la permanenza in Italia di stabilimenti e imprese che producono beni e servizi strategici come ad esempio mascherine e respiratori, essenziali durante la pandemia. Come si evince dal Rapporto, inoltre, questo interesse si accompagna al protezionismo contro i prodotti di Paesi che non rispettano le nostre regole sociali e sanitarie: a dichiararlo è l'86% degli intervistati (88,3% tra le donne e 89,2% tra chi risiede nel Nord Est).

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, "la coesione sociale è un presupposto della crescita, come un buon welfare. Farli sentire con le spalle protette, per salute e futuro dei figli, è il modo migliore per rassicurare gli italiani, facendo ritrovare loro il gusto delle sfide. La pandemia ci lascerà una società impaurita, più diseguale, alla ricerca della crescita. Non sarà lo stato a debito a lenire le sofferenze, ci vorrà lo sforzo di tutti i soggetti, le imprese e i mercati". Secondo il presidente di Tendercapital, Moreno Zani, "il 2020 è stato ed è tuttora un anno senza precedenti, con sfide estremamente complicate in termini sanitari ed economici. Non dobbiamo però dimenticarci delle conseguenze a livello sociale della pandemia, che rischiano di diventare davvero gravi: aumento delle disparità sociali, gender gap, paure e incertezze. Gli italiani indicano chiaramente che una società inclusiva, sostenibile, equa è la priorità del nostro tempo, con grande sensibilità sociale".

460.000 le piccole imprese italiane (con meno di 10 addetti e sotto i 500.000 euro di fatturato) a rischio chiusura a causa dell'epidemia: l'11,5% del totale, capace di un fatturato complessivo di 80 miliardi di euro e di impiegare un milione lavoratori. 

E' quanto emerge dal 'Secondo Barometro Censis-Commercialisti sull'andamento dell'economia italiana', realizzato in collaborazione con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Secondo il rapporto, a causa delle conseguenze del lockdown per arginare la pandemia da Covid-19 potrebbe sparire il doppio delle microimprese che hanno chiuso tra il 2008 e il 2019, come conseguenza della grande crisi. "Sarebbe un doloroso addio ai nostri piccoli imprenditori vittime di una strage annunciata, con gravi ricadute sulla crescita: è in pericolo il meglio del motore antico del modello di sviluppo italiano", si legge in una nota del Censis. Il 29% dei commercialisti coinvolti nella ricerca rileva che più della metà delle microimprese clienti ha almeno dimezzato il proprio fatturato (il dato scende al 21,2% nel caso dei commercialisti che si occupano di imprese medio-grandi).

Sono quindi 370.000 le piccole imprese che hanno subito un crollo di più della metà dei ricavi. Inoltre, il 32,5% dei commercialisti registra in più della metà della clientela una perdita di liquidità superiore al 50% nell'ultimo anno (il dato scende al 26,2% tra i commercialisti che seguono imprese di maggiori dimensioni). Sono cioè 415.000 le piccole imprese che oggi dispongono di meno della metà della liquidità di un anno fa. 

Sullo stato di diritto l'Ue non arretra di un millimetro e lo stallo sul Recovery resta. La videoconferenza dei leader, come peraltro era previsto, non ha sbloccato il veto di Polonia e Ungheria sul pacchetto economico da 1.800 miliardi di euro con cui i governi nazionalisti di Mateusz Morawiecki e Viktor Orban stanno tenendo in ostaggio il futuro dell'Europa. 

L'Ungheria e la Polonia hanno deciso di porre il veto sul Recovery Fund: al centro di tutto c’è la condizionalità che lega l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto, con Orban e Morawiecki che rischiano di far saltare il Next Generation Ue e i 209 miliardi destinati all'Italia.

Ma perché Ungheria e Polonia hanno deciso di porre il veto sul Recovery Fund? Tutto ruota intorno alla condizionalità che lega l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto, un cavillo non di poco conto viste le politiche messe in atto negli ultimi anni da Viktor Orban e da Jarosław Kaczyński.

Secondo l'Articolo 2 del Trattato sull'Unione europea, lo stato di diritto è uno dei valori fondanti dell'UE. Vale a dire che i governi dovrebbero essere vincolati dalla legge, che non dovrebbero prendere decisioni arbitrarie e che i loro cittadini dovrebbero essere in grado di contestare l'operato in un tribunale indipendente.

Esso sancisce inoltre la lotta contro la corruzione, per cui alcuni traggono indebito vantaggio a danno degli altri, e protegge la libertà di stampa, assicurando così che la collettività sia adeguatamente informata sugli interventi del governo.

Lo stato di diritto è di interesse comune secondo i cittadini europei. Secondo un sondaggio dell'Eurobarometro pubblicato nel 2019, almeno l’85% dei partecipanti UE ha considerato essenziale o importante ogni aspetto dello stato di diritto. Un altro sondaggio pubblicato a ottobre 2020 ha riportato che il 77% dei cittadini europei (in Italia l'81%) sostiene che l'UE dovrebbe fornire fondi agli stati membri solo se il governo nazionale rispetta lo stato di diritto e i principi democratici.

La corruzione o la presenza di tribunali non indipendenti possono significare che non esiste una reale protezione contro l’uso improprio dei fondi UE destinati a uno stato membro. Nel 2018, la Commissione ha presentato una proposta legislativa con lo scopo di difendere gli interessi finanziari dell’UE, nel caso in cui vengano rilevate irregolarità nello stato di diritto.

Il Parlamento ha adottato la sua posizione sulla proposta a inizio 2019. Il documento è legato al risultato dei negoziati sul bilancio a lungo termine dell'UE, e il Parlamento ha ribadito che un accordo sul bilancio 2021-2027 è possibile solo se ci sarà sufficiente progresso in questa legislazione.

I leader europei hanno raggiunto nel luglio 2020 l'accordo di introdurre la condizionalità dello stato di diritto, per esempio subordinando la ricezione dei fondi europei di uno stato membro al suo rispetto dello stato di diritto. La presidenza tedesca del Consiglio dell'Unione europea ha presentato una proposta di compromesso a inizio autunno, giudicata insufficiente dagli eurodeputati durante la sessione plenaria del 5 ottobre.

“Un meccanismo che non può nemmeno essere attivato nella pratica, a causa di procedimenti incerti e con potenziali scappatoie, è utile solo agli interessi di chi non desidera vedere nessuna misura in azione”, ha detto Petri Sarvamaa, del Partito popolare europeo (Finlandia).

Ma il messaggio emerso forte e chiaro, per bocca del presidente del Consiglio Charles Michel, è che sul rispetto dello stato di diritto l'Unione non è disposta a fare compromessi. Un punto fermo del negoziato che ripartirà già da domani, sotto la regia della presidenza di turno tedesca, alla ricerca di una via d'uscita per liberare il Bilancio 2021-2027 ed il Recovery fund dal ricatto dei due Paesi recalcitranti di fronte alla clausola che lega l'erogazione dei fondi al rispetto delle regole fondamentali della democrazia.  

Ci vorrà ancora tempo per risolvere la clamorosa crisi scoppiata tra i Ventisette dopo che Ungheria e Polonia si sono opposti all'adozione del bilancio comunitario per protestare contro un nuovo meccanismo che condiziona l'esborso dei fondi comunitari al rispetto dello stato di diritto. La giornata di giovedì ha ribadito il braccio di ferro.

I capi di Stato e di governo hanno tenuto giovedì sera una riunione in teleconferenza, come ormai avviene una volta al mese da quando è scoppiata l'epidemia influenzale. Esponenti politici avevano avvertito che non vi sarebbero state novità. La crisi è scoppiata lunedì, ed è ancora presto per risolvere la questione: “Dobbiamo continuare le discussioni per trovare un compromesso”, ha detto in una conferenza stampa alla fine della riunione il presidente del Consiglio europeo Charles Michel

Per cercare di convincere Budapest, Varsavia e Lubiana, la Francia ha minacciato di chiudere l'accordo a 25, lasciando fuori i due Paesi: anche in questo modo, non avrebbero accesso ai fondi. Ma una spaccatura così plateale, paradossalmente, potrebbe avere conseguenze destabilizzanti per l'intera Unione. Una discussione sostanziale, forse, arriverà con il prossimo Consiglio europeo, in agenda per i primi di dicembre.  

L'ufficio per la comunicazione internazionale di Orban, su Twitter, ha fatto sapere che "il governo di Budapest ha posto il veto sul pacchetto di bilancio Ue in linea con la sua posizione comunicata già nel summit di luglio": le capitali dell'Est non vogliono vedersi negati i fondi perché, a giudizio della Commissione Ue, non rispettano lo Stato di diritto.

"A luglio abbiamo trovato un accordo e abbiamo bisogno che l'intero pacchetto riceva il via libera, dobbiamo andare avanti", ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen al termine del summit Ue. "La Commissione europea sostiene l'accordo trovato nei negoziati, e per me è anche importante per il futuro avere un bilancio" con il meccanismo dello "stato diritto - ha aggiunto - dobbiamo trovare una soluzione, milioni cittadini aspettano una risposta in questa crisi senza precedenti e dunque continuiamo a lavorare sodo per raggiungere un accordo al più presto".

"Ungheria e Polonia hanno posto un veto alla decisione sul Recovery Fund e hanno detto chiaramente che non possono accettare la condizionalità sullo stato di diritto. Questo significa che non possiamo inviare la proposta al Parlamento Ue", ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine della videoconferenza tra i leader Ue. "Non voglio fare speculazioni su come verrà risolta la questione con Ungheria e Polonia, dobbiamo continuare a lavorare e sondare tutte le opzioni possibili", ha detto la Merkel. "Siamo ancora all'inizio della questione".

Il negoziato ripartirà già oggi, ma sembra difficile che il via libera sul Recovery Fund e sul bilancio 2021-2027 dell'Unione Europea arrivi nelle prossime ore. Durante la videoconferenza dei leader UE tenutasi ieri, tramite le parole dei loro capi di governo Mateusz Morawiecki e Viktor Orban, Polonia e Ungheria hanno confermato il veto con cui stanno tenendo in ostaggio il pacchetto economico pensato per fronteggiare la crisi causata dal coronavirus. Dall'altro lato, la maggioranza degli Stati membri è decisa a non scendere a compromessi sulla clausola che lega l'erogazione dei fondi al rispetto delle regole fondamentali della democrazia.

L'Unione Europea potrebbe aggirare l'ostacolo entrando in un esercizio di bilancio provvisorio, ma ciò finirebbe per accumulare ritardi sugli esborsi del Recovery Fund. Resta positivo il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, che ha detto: "La magia dell'Unione Europea è quella di trovare soluzioni anche quando sembra impossibile. Nessuno sottovaluta la situazione, e la natura seria di quanto affrontiamo. Ma c'è la determinazione di lavorare in modo intenso per superare gli ostacoli".

"Ungheria e Polonia hanno posto un veto alla decisione sul Recovery Fund e hanno detto chiaramente che non possono accettare la condizionalità sullo stato di diritto. Questo significa che non possiamo inviare la proposta al Parlamento UE", ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine della videoconferenza. "Non voglio fare speculazioni su come verrà risolta la questione con Ungheria e Polonia, dobbiamo continuare a lavorare e sondare tutte le opzioni possibili", ha aggiunto.

"Gli emendamenti alla costituzione e ad altre leggi presentati dal governo ungherese al parlamento potrebbero avere gravi effetti negativi sui diritti umani" e "minare lo stato di diritto".

I "parlamentari dovrebbero rinviare il voto sul pacchetto". Così Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa. "Temo che diverse proposte del pacchetto legislativo, presentato senza consultazione su questioni come il funzionamento della magistratura, la legge elettorale, strutture nazionali per i diritti umani, controllo dei fondi pubblici e i diritti delle persone lgbti, possano minare la democrazia" avverte Mijatovic.  

Il recovery plan dell'Italia "lo vedrete entro i tempi stabiliti, stiamo lavorando con grande intensità e siamo in una interlocuzione con la Commissione europea, come altri Paesi. Nessun paese ha presentato il piano finale, stanno tutti lavorando con la Commissione per affinare i progetti e noi lo stiamo facendo piuttosto intensamente": Lo ha detto il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, a Omnibus ribadendo che il negoziato europeo per superare i veti di Ungheria e Polonia sul bilancio pluriennale comunitario e dare il via al recovery fund può risolversi a dicembre.

Nonostante gli attriti fra i due Paesi dell'Est e l'Ue non siano proprio una novità, è la prima volta che Budapest e Varsavia pongono il veto all'interno del Consiglio europeo, per giunta su una questione di vitale importanza come i fondi comunitari. Al bilancio pluriennale, quest'anno, è legato anche il Recovery Fund, lo strumento finanziario dell'Ue per far fronte alla crisi economica e sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Agli Stati membri, saranno distribuiti i 750 miliardi di euro previsti dal fondo congiunto, di cui 390 trasferiti in sovvenzioni e 360 in prestiti.

Sbloccare l’approvazione del Mff, pertanto, è fondamentale per tutti in Unione europea, la quale si sta trovando in un’impasse senza precedenti per la sua storia. Il Parlamento europeo ha già dichiarato che non è disposto a negoziare i termini dello stato di diritto con Budapest e Varsavia. I leader del Consiglio europeo, riunitosi virtualmente nella giornata di giovedì 19 novembre, sono tuttora alla ricerca di una soluzione diplomatica. Per riuscire a utilizzare almeno il Recovery Fund, infatti, l’unica alternativa a una ritrovata unanimità sarebbe quella di trasformare il fondo comunitario in uno strumento intergovernativo, che tuttavia si dimostrerebbe una procedura lunga e non risolverebbe il problema del ricatto di fondo da parte dei due Paesi dell’Est – spiega l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

Sul fronte sanitario, l'Unione europea non ha alcuna intenzione di fermare i due vaccini. L'Ema potrebbe dare il via libera alla loro commercializzazione nella seconda metà di dicembre. Sempre se non dovessero emergere problemi, ha fatto capire la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Capitolo debiti. La presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, è stata chiara nel rispondere indirettamente alla proposta avanzata dal presidente dell'Europarlamento David Sassoli: "Leggo sempre con interesse tutto quello che dicono i rappresentanti del Parlamento Ue e soprattutto i presidenti, la mia risposta è molto corta: tutto quello che va in quella direzione è contro i trattati, c'è l'articolo 103 che proibisce quel tipo di approccio e io rispetto i trattati". Dunque, semaforo rosso alla cancellazione del debito contratto dai vari Paesi con la Bce.

Tra le tante incertezze che stanno caratterizzando le elezioni presidenziali americane, sussiste una sola certezza: il popolo americano è sostanzialmente spaccato in due, da una parte i sostenitori del partito democratico, dall’altra quelli del partito repubblicano.

Per quanto riguarda i risultati elettorali, sarebbe stato prudente aspettare almeno il 15 dicembre quando il Collegio elettorale, dovrà esprimere il proprio voto e sancire la vittoria del prossimo presidente americano. Pertanto, nessuno può decretare la vittoria prima del 14 dicembre. Quindi chi si è espresso prima, come la maggior pare dei media e i capi di governo, lo ha fatto su delle proiezioni elettorali e soprattutto perché molti di questi si augurano (per non dire parteggiano) la vittoria del candidato dem. Purtroppo, sembra che in questa scelta imprudente sia caduto anche papa Francesco, sempre se risponde a verità la presunta telefonata a Biden. Anche lui, poteva aspettare il responso definitivo del 15 dicembre.

Intanto continua lo spoglio elettorale e soprattutto la verifica dei voti e quindi l’inchiesta sulla regolarità del voto. Tuttavia occorre anche scrivere che nonostante la sicurezza dell’entourage del presidente Trump, sembra che ad oggi siano “minime le speranze di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali contestando il voto nei tribunali, per una serie di ragioni che vanno dalla difficoltà di provare brogli massivi, e decisivi, a doverlo fare in più stati in pochi giorni”(Federico Punzi, Il caso Pennsylvania, su cui potrebbe pronunciarsi la Corte suprema: violate legge elettorale e costituzione, 700 mila voti contestati, 14.11.20, atlanticoquotidiano.it)

Questo però non significa che un qualsiasi osservatore “dotato di buon senso e onestà intellettuale - scrive Punzi - non dovrebbe ignorare l’opacità dello scrutinio negli stati in bilico, dove il conteggio dei voti è stato più volte fermato e ripreso, in attesa dell’arrivo di ulteriori schede anche ore e giorni dopo la chiusura dei seggi, e dove sono stati estromessi gli osservatori del Gop. Non si tratta di portare avanti teorie della cospirazione, ma di riconoscere l’inaffidabilità intrinseca del voto per posta, che in queste elezioni, con la scusa del Covid, per volontà dei Democratici è stato reso “universale”, da eccezione a regola, in molti stati.

A proposito dei brogli, sembra che negli Stati dove sostanzialmente si è giocata la vera battaglia elettorale: Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania, Nevada, Wiskonsin, proprio qui per conteggiare i voti è stato utilizzato il software Dominium. E proprio in questi Stati che è stato fermato il conteggio e poi proseguito dopo il nuovo afflusso di schede elettorali taroccate. Sembra che al 70% di schede scrutinate in Pennsylvania, Trump era avanti di 800 mila voti su Biden. Poi magicamente non si sa come è passato avanti.

Per quanto riguarda i media mainstream che ancora si sforzano di oscurare l’offensiva legale del presidente Trump, è che in realtà ci troviamo nel bel mezzo di un’elezione contestata. “Certo, sia il gioco delle assegnazioni durante la notte del 3 novembre sia la frettolosa proclamazione mediatica di Biden presidente-eletto miravano a mettere il Paese, l’opinione pubblica e le istituzioni, di fronte al fatto compiuto, ben prima che fosse ragionevole “chiamare” un vincitore. Come previsto, è scattata la narrazione di Trump “golpista” e agitatore, che i Democratici e i media fiancheggiatori preparavano da mesi, ma la realtà è che non c’è nulla di scandaloso o di pericoloso in un presidente uscente che si rivolge ai tribunali per contestare presunte irregolarità nel voto. È suo diritto farlo, ci sarà un processo legale, farà il suo corso, e la volontà dei media di ignorarlo, di ignorare qualsiasi elemento a supporto dei ricorsi, rifiutandosi di contemplare persino l’ipotesi, non è giornalismo, è attivismo politico”.

E comunque coloro che oggi accusano Trump di non voler “concedere” la vittoria a Biden, sono gli stessi che per tre anni e mezzo, senza uno straccio di prova e sulla base di dossier e leak falsi, hanno alimentato la bufala dell’elezione rubata da Trump con l’aiuto dei russi.

Sulla questione dell’influenza dei mass media sulle elezioni americane se ne è occupato Stefano Magni, in un interessante editoriale sempre su Atlanticoquotidiano. “Molti non ricordano (o fingono di non ricordare), ma noi sì: i media Usa (e non solo) hanno riservato il “trattamento-Trump” a tutti i candidati o presidenti Repubblicani, da Goldwater a Romney, passando per i Bush e McCain (oggi lodato da morto), massacrandoli con campagne di delegittimazione e fake news. Ma con Trump hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni…” (Stefano Magni, L’egemonia Dem sui media. Non solo Trump: non c’è candidato o presidente Repubblicano che non sia stato demonizzato, 16.11.20, atlanticoquotidiano.it)

Pertanto, l’atteggiamento partigiano e poco professionale dei Media americani nei confronti dei candidati repubblicani è iniziato dagli anni ’60, dai tempi di Kennedy.

Il perché la stampa americana demonizza i candidati repubblicani o conservatori viene ben individuato da Magni. “Il grande problema ignorato, un “elefante nella stanza” come direbbero gli americani, non è questo o quel presidente, ma l’egemonia che i Democratici hanno conquistato nel mondo accademico e di conseguenza in quello mediatico. E’ quell’egemonia culturale gramsciana che peraltro caratterizza anche l’Italia.

Questo atteggiamento discriminatorio viene giustificato “dai diretti interessati con argomentazioni che vanno dal romantico “dobbiamo resistere a un presidente nemico della libertà di stampa”, ad un deontologico “non possiamo permettere che vengano trasmesse informazioni false”. Naturalmente sono affermazioni false, anche perché questi giornalisti non si sono mai sognati di censurare personaggi discutibili¸ dittatori o terroristi come Osama bin Laden o Abu Bakhr al Baghdadi.

E peraltro è giusto così perchè un giornalista deve informare e non fare il giudice. Dunque, Trump non è il primo repubblicano ad essere preso di mira dai media americani. Tutto inizia dal candidato Barry Goldwater, nel 1960, laico e liberale, è tuttora ricordato come “razzista” e “guerrafondaio”, a causa della feroce campagna mediatica contro di lui. Non vinse le elezioni e si risparmiò quattro anni di gogna mediatica.

Interessante il trattamento riservato al presidente Richard Nixon “che divenne addirittura sinonimo della corruzione del potere. Nixon venne letteralmente linciato per una guerra (Vietnam) che non aveva iniziato, ma che, anzi, provò a portare a termine nel migliore dei modi con gli accordi di Parigi nel 1973. L’odio dei media nei suoi confronti era tale, che gli è stata anche tolta la Luna. Fateci caso: quando l’anno scorso è stato celebrato il 50° anniversario dell’allunaggio, è sempre stato nominato Kennedy (che lanciò il programma), ma mai Nixon (che lo portò a termine con successo nel suo primo anno di presidenza)”.

Poi toccò a Reagan, ci provarono in tutti i modi. Ma nonostante l’aggressione mediatica, secondo Magni, fu il presidente più amato degli americani. Si continua con i Bush padre e figlio, anche loro non hanno avuto certamente il favore della stampa. Magni riporta episodi per convalidare la sua tesi, soprattutto in riguardo a Bush figlio. “Nell’era di Internet ogni giorno, ogni ora, era un attacco continuo al presidente, calunniato, paragonato a una scimmia, accusato di essere un alcolizzato. Sono stati realizzati documentari, film, libri, contro la sua persona e la sua amministrazione. I suoi uomini, Cheney, Rumsfeld, Rove, paragonati a criminali nazisti”.

L’odio dei media contro i candidati repubblicani non si spense, la contro-informazione, la disinformazione continuò anche per i due candidati successivi: contro McCain e soprattutto contro la sua vice Sarah Palin. Addirittura, contro quest’ultima “erano già pronti a creare (anche con un film hollywoodiano rimasto nel cassetto) una mitologia negativa contro i mormoni e la destra religiosa, al momento della candidatura di Mitt Romney. Infine, hanno avuto modo di sfogarsi con Trump. Pensateci bene quando dite: “Trump è comunque indifendibile”. Chiunque viene massacrato, basta che non sia dalla parte “giusta”. Certo con Trump, i media hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni, un po’ come un arbitro che segna il gol della vittoria”.

"Trump per l'Europa è stato la tempesta, Biden può essere la quiete dopo la tempesta". L'analisi di Paolo Magri dell'ISPI in occasione del webinar organizzato da Ruling Companies “Post Elezioni Americane” che ha visto confrontarsi sul tema Simone Crolla Managing Director, American Chamber of Commerce in Italy; Paolo Magri Vice Presidente Esecutivo e Direttore, Istituto Studi Politica Internazionale (ISPI); Maria Lina Marcucci Chief Communication Officer, Kedrion; Simone Trevisani Amministratore Delegato, Drillmec

Come saranno gli Stati Uniti di Biden? Stando alle prime dichiarazioni l'obiettivo è quello di "unire gli americani". Registro opposto, dunque, rispetto a quello usato dal suo predecessore Trump che ha spesso gettato benzina sul fuoco su più di una questione, cavalcando con piacere l'onda della polemica. Salvo poi, secondo molti, venirne alla fine travolto.
Mai come ora, mentre il mondo è impegnato nella lotta contro la  pandemia globale di Covid, le elezioni americane si sono presentate come un bivio non solo per gli Stati Uniti ma anche per gli assetti geopolitici globali.

Sul fronte interno - dice Magri - Biden dovrà ricostruire e riunire un Paese diviso ridando al contempo ossigeno ad un'economia in sofferenza. Ovviamente, ci saranno delle difficoltà, ad esempio smantellare la riforma delle tasse di Trump perché servono voti alla Camera e al Senato; difficilmente poi si potrà implementare il programma del salario minimo che piace molto a una parte del partito democratico; cammino in salita anche per l'obiettivo di dare impulso ad un nuovo Green New Deal perché avere risorse per le energie rinnovabili non sarà facile, proprio come non lo è stato per Trump.

Ci dobbiamo aspettare un enorme intervento di stimolo facendo debito e qui staremo alla finestra per vedere come si comporteranno i repubblicani: se torneranno ad essere rigorosi sul debito,  come non sono stati con Trump che ha aggiunto 7 mila miliardi di dollari di debito in questi anni. Ora c'è da capire se torneranno a fare ciò che facevano con Obama, seguendo la scia dello "slogan": "Non puoi spendere perché crei debito e il debito non fa bene alla nazione".

A livello internazionale, invece, al di là di fin troppo facili letture semplicistiche che disegnano schematicamente un Trump isolazionista sostituito da un Biden multilateralista, internazionalista, europeista, analizziamo alcune certezze: la prima  è che cambieranno, di certo, toni e stili e questa è una gran buona notizia perché in diplomazia la forma è sostanza e la forma di Trump non era  la migliore per rendere il mondo meno complicato. La seconda certezza è che Biden tornerà al tavolo negoziale con l'Iran, ma attenzione si balla in due e anche il ritorno alla diplomazia sarà tutto in salita: in Iran si voterà a giugno prossimo e non è da escludere - anzi - che le forze più dure e pure e potrebbero avere mal di pancia a tornare al tavolo negoziale sul nucleare.  Altre certezze sono che Biden, come ha già fatto sapere, è pronto a riportare gli Usa nell’accordo sul clima di Parigi e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità.  

"Il mio messaggio ai leader stranieri è solo uno: l'America sta tornando" , ha detto Joe Biden, che nelle ultime ore ha avuto, tra gli altri, colloqui telefonici con il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il Primo Ministro del Regno Unito Boris Johnson. "Parlando con loro, ho detto che siamo di nuovo in gioco", ha twittato il presidente neo eletto degli Stati Uniti, Biden.

Gli alleati europei, insomma, sperano di non sentir parlare più di "America first" che ha rischiato di far naufragare anni di consolidata partnership transatlantica visto che il neo presidente democratico ha più volte chiarito in campagna elettorale di voler rovesciare quattro anni di politica estera isolazionista, proprio nel tentativo di ricucire strappi e allentare tensioni, anche con il Vecchio continente. "Trump per l'Europa è stato la tempesta, Biden può essere, nel bene e nel male,  la quiete dopo la tempesta”, conclude Magri.

Interviene Simone Crolla Managing Director, American Chamber of Commerce in Italy, partendo dalla domanda: Gli americani potranno rimpiangere Trump? Non è dato saperlo. Trump insieme a Regan ha preso più voti, anche perdendo le elezioni ha conquistato un primato che gli lascia dell'elettorato Repubblicano una presa molto forte.Durante l'epoca Trump l'economia è stata sviluppata in maniera molto forte.

Maria Lina Marcucci, Chief Communication Officer, Kedrion parla di “giorni di grande riflessione”, gli elettori americani sono tornati a partecipare..e dal punto di vista femminile è stato grandioso grazie a Kamal Harris.
Trump lascia all'Europa una buona legacy involontaria che vedremo se l'Europa è in grado di coltivare. In questa 4 anni abbiamo dovuto sentirci Europa, l'Europa stessa ha dovuto trovare la forza per imporsi come sistema unito. Ciò che ci aspettiamo dal punto di vista delle imprese è che si riusciranno a trovare tattiche negoziali più soft, meno destabilizzanti.

Conclude l'intervento Simone Trevisani Amministratore Delegato, Drillmec. Noi dopo che c'è stato crollo del prezzo del barile siamo pronti a tutto. Le elezioni americane sono un altro step per collegare tutto.
Con Biden si apre una fase più liberista in cui le società italiane potranno avere loro ruolo, arriverà dal 2022 ma dobbiamo essere pronti a offrire incrementi di volume. Per quanto riguarda l'argomento energetico invece bisognerà capire cosa farà perché durante la sua campagna elettorale per quanto riguarda l'energia rinnovabile. C'è molto da fare a livello di investimenti per proteggere le risorse, siamo in una fase di transizione molto forte, dove sarà necessario pensare a una transizione sostenibile per proteggere l'ambiente e le risorse umane.

Intanto mentre in Italia si fanno delle analisi sul Presidente eletto Biden,di come potrebbe essere la sua Presidenza, in Usa la battaglia e ancora molto combattiva da parte del Presidente Trump su chi veramente avrà la Presidenza del paese... "Le nostre grandi cause che mostrano l'incostituzionalità' delle elezioni 2020 e l'oltraggio delle cose che sono state fatte per cambiarne l'esito saranno presentate presto!": lo twitta Donald Trump, lasciando intendere un possibile ricorso alla Corte suprema, dove ha blindato la maggioranza conservatrice con la nomina di tre giudici.

"Ha vinto solo agli occhi dei media fake news. Io non concedo nulla!", aveva cinguettato omettendo di nuovo il nome di Bidem e ammonendo che c'è ancora "una lunga strada da fare". E' la strada dei ricorsi legali. Dopo i rovesci subiti finora, il presidente ha deciso di affidarsi nuovamente al suo avvocato personale Rudy Giuliani.

Trump lo considera un "combattente", e Giuliani ha promesso battaglia in un'intervista alla Fox. Non solo sui voti ma su Dominion, la società che ha fornito il sistema di voto a oltre 30 Stati Usa e che secondo il presidente gli ha sottratto centinaia di migliaia di preferenze. 

"E' una società della sinistra radicale", ha denunciato, riecheggiando i tweet del suo 'boss'. L'avvocato però non ha fatto altro che rilanciare infondate teorie cospirative, secondo cui Dominion è legata alla fondazione Clinton, mentre Smartmatic, una delle aziende che produce le macchine per tabulare i voti, è controllata dal George Soros.

 

Bloomberg lo definisce il "più grande" accordo commerciale al mondo, il Financial Times usa l'intera storia come metro di paragone. L'oggetto di questi superlativi è l'accordo commerciale che hanno annunciato i leader di 15 Paesi asiatici, capitanati dalla Cina ma tirando dentro colossi come Giappone e Corea del Sud.

I progressi negoziali sono stati particolarmente lenti nei primi anni, ma le discussioni hanno preso slancio dopo che Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti nel 2017 ritirando gli Usa dal Tpp, il Fta proposto dall'amministrazione di Barack Obama composto da 12 Paesi. Nel mezzo di una crescente tendenza globale al protezionismo, i Paesi partecipanti sono diventati più motivati a promuovere il libero scambio. L'accordo comprende 20 capitoli di regole che coprono dal commercio di beni, investimenti e commercio elettronico alla proprietà intellettuale e agli appalti pubblici, con l'obiettivo di aumentare l'interazione economica basata su regole tra i membri, con la prospettiva di entrare in vigore quando tutti i firmatari lo avranno ratificato

Nella rete dell'intesa Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) sottolinea la Repubblica,  si intersecano da una parte gli accordi dei dieci membri dell'Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) - Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam - combinandosi d'altra parte in forma unitaria in un patto multilaterale esteso ad Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Dentro il nuovo accordo ci stanno quasi un terzo della popolazione mondiale (2,2 miliardi di persone) e una fetta altrettanto grande della ricchezza del globo (26 mila e 200 miliardi di dollari).

il premier cinese Li Keqiang, che partecipa virtualmente alla riunione di Hanoi, ha osservato che nei primi tre trimestri dell’anno l’interscambio Cina-Asean (i 10 Paesi del Sudest asiatico che entrano nel nuovo patto di libero scambio) ha raggiunto i 481 miliardi di dollari, +5% sul 2019. E ha aggiunto che Pechino «terrà a mente le necessità dei partner commerciali quando i vaccini cinesi saranno pronti per la distribuzione». 

Mentre gli Stati Uniti escono dalle travagliate elezioni presidenziali del 3 novembre e lottano ancora contro la pandemia di coronavirus, si forma un nuovo blocco commerciale sul quale la Cina può estendere la propria influenza.

L’accordo si chiama Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Era stato proposto per la prima volta nel 2012, ma la spinta finale a trovare la quadra è arrivata nell'anno della pandemia che ha messo in seria difficoltà le economie dell’area.

La RCEP raccoglie i 10 membri della Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. L’obiettivo è principalmente quello di abbassare o in alcuni casi persino eliminare delle tariffe, alcune immediatamente, altre nell'arco di 10 anni. il patto rappresenterà il 30% dell'economia e della popolazione globale. Raggiungerà inoltre 2,2 miliardi di consumatori.

Ha deciso di non firmare, invece l'India, che nel corso dell'estate ha avuto schermaglie con la Cina e che temeva di veder aumentare il proprio deficit commerciale con il colosso asiatico. Tuttavia potrebbe aderire anche in un secondo momento.  La Cina e altri 14 Paesi asiatici e dell'area del Pacifico hanno appena firmato il più grande accordo di libero scambio al mondo. L'accordo rappresenta il 30% del PIL globale aiuterà le economie coinvolte a riprendersi dalla crisi dovuta al coronavirus.

La firma arriva alla conclusione delle elezioni statunitensi i cui esiti sul fronte commerciale, nonostante la vittoria di Biden, non sono ancora noti. Diversi esperti ritengono infatti che la strada spianata da Trump cambierà più nei modi che nei contenuti. Così quindici Paesi asiatici e del Pacifico hanno firmato un mega accordo commerciale che vale il 30% del pil mondiale. Si chiama Partenariato regionale economico comprensivo (Rcep), include i dieci membri dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, e si presenta come il più grande accordo di libero scambio al mondo. La fumata bianca è tanto storica quanto importante per due aspetti.

il Rcep sottolinea insider Over,copre un’area che vale un terzo dell'attività economica globale. Secondo: anche se stiamo parlando di un patto meno approfondito rispetto al Partenariato trans-pacifico (Tpp), stracciato da Donald Trump nel 2016, stiamo comunque parlando di un’intesa che porterà a dazi più bassi negli scambi commerciali tra i firmatari. “Dopo otto anni di negoziati lacrime e sangue, siamo finalmente arrivati al momento di chiudere l’accordo”, ha scritto in un comunicato il ministro del Commercio della Malesia, Mohamed Azmin Ali. I firmatari sperano che l'intesa possa favorire la ripresa delle economie regionali dopo la crisi legata alla pandemia di coronavirus. “I nostri Paesi hanno scelto di aprire i rispettivi mercati invece di ristabilire misure protezioniste in questi tempi difficili”, ha aggiunto il ministro malaysiano.

Tra i punti dell'intesa, scrive l inside over,ha sottolineato il Ministero delle Finanze cinese, troviamo l'eliminazione di varie tariffe (in parte subito, in parte nel giro di una decina di anni). Le regole comprendono quindi tematiche specifiche, tra cui gli investimenti, il commercio dei beni, quello elettronico, la proprietà intellettuale e gli appalti pubblici. Un'intesa del genere è importante non solo per gli effetti economici che genererà, ma anche per alcuni risvolti geopolitici. Per la prima volta le potenze rivali dell’Asia orientale – citiamo Cina, Giappone e Corea del Sud – hanno unito le forze in nome di un obiettivo comune.

Ma l’intesa del Rcep è fondamentale anche e soprattutto per la Cina. Innanzitutto il Partenariato regionale economico comprensivo, proprio come la partnership trans pacifica (Cptpp), evoluzione del Tpp, non comprende gli Stati Uniti. Detto altrimenti, Washington è stata tagliata fuori da due accordi commerciali che riguardano l’Asia, cioè la regione che può cantare la crescita più grande del mondo. Senza gli americani tra i piedi, Pechino avrà carta bianca per rafforzare la propria posizione nel continente asiatico. E il Dragone si farà avanti sia con quei Paesi con i quali sono in corso diatribe relative al Mar Cinese Meridionale, sia con gli “storici” rivali Giappone e Corea del Sud.

Considerando le dimensioni della Cina,sottolinea inside over. il gigante asiatico si ritroverà in una posizione tale da poter dettare le regole commerciali della regione. Il Rcep, inoltre, aiuterà il governo cinese a ridurre la propria dipendenza dai mercati e dalla tecnologia estera, un obiettivo in linea con l'ultimo piano quinquennale. Dal Partenariato regionale economico comprensivo rimane per ora esclusa l’India, che tuttavia potrà avvalersi di una clausola per entrare più avanti nel blocco. Nuova Delhi si è sfilata dall'intesa spiegando di non poter esporre i propri produttori e i propri agricoltori a una concorrenza estera ancora più agguerrita: a pesare nella decisione sarebbero stati in particolare i timori per l'arrivo di prodotti artigianali dalla Cina e le pressioni delle imprese del settore caseario, preoccupate dalla competitività dei produttori di Nuova Zelanda e Australia. In ogni caso, la firma è anche considerata un successo diplomatico per la Cina, che rappresenta il più grande mercato dell’area e che rivendica il ruolo di “promotore della globalizzazione e della cooperazione multilaterale” a livello globale.

Per Cina e Giappone, rispettivamente prima e seconda economia asiatica, il Rcep è il primo accordo di libero scambio a metterle in contatto. L'intesa è considerata una significativa pietra miliare per la regione, a maggior ragione in vista della ripresa post pandemia del Covid-19. "La firma del Rcep non è solo un traguardo epocale nella cooperazione nell'Asia orientale, ma è anche una vittoria del multilateralismo e del libero scambio", ha commentato il premier cinese Li Keqiang. Si sono spinti oltre i media ufficiali di Pechino: il successo del "mega accordo Rcep è una vittoria per il multilateralismo e il libero scambio, con Paesi, compresi gli alleati degli Usa, che hanno assestato un colpo al protezionismo e al bullismo economico perseguito dagli Usa e da altri", ha scritto il tabloid nazionalista Global Times, aggiungendo su Twitter che "il Rcep aiuterà la regione dell'Asia-Pacifico a prendere la leadership globale nella ripresa post Covid-19 e a ridurre l'egemonia Usa nella regione".

Intanto secondo il quotidiano il giornale nel suo inserto inside over,nelle scorse ore, i principali network americani hanno attribuito a Joe Biden la vittoria nello stato della Georgia, che così vola a 306 grandi elettori contro i 232 di Donald Trump. Ma va tenuto conto del fatto che è ancora in corso un riconteggio manuale dei voti che potrebbe cambiare l'esito delle elezioni. In Georgia, scrive Paul Sperry in un’inchiesta pubblicata su Real Clear Investigations, e precisamente nella contea di Fulton, è peraltro accaduto qualcosa di strano. Premessa: anche la Georgia, come il Michigan, ha stipulato un contratto con la Dominion Voting Systems in tutte le sue 159 contee. Cos’è accaduto, dunque? Nelle prime ore del 5 novembre, scrive il sito americano, un’improvvisa ondata di circa 20mila voti per corrispondenza è arrivata, tutta per Joe Biden, mentre circa mille voti per il presidente Trump sarebbero misteriosamente scomparsi dal calcolo totale. Un osservatore avrebbe notato il sospetto spostamento dei voti durante il monitoraggio dei risultati delle elezioni provvisorie sul sito web del segretario di stato della Georgia.

Si tratta di Garland Favorito,scrive insiede over, co-fondatore di Voter Ga, che intervistato da RealClearInvestigations, spiega: “Ho concluso guardando questi risultati che si trattava di un’irregolarità, dal momento che non vi era alcuna ragione evidente del fatto che i voti di Trump fossero diminuiti, mentre quelli dell’ex vicepresidente Joe Biden fossero aumentati così drasticamente”.”Anche qui – spiega – il software sembra aver spostato voti da Trump a Biden”, ha rimarcato il testimone. L’ammontare dei voti che arrivavano a un solo candidato “era qualcosa a cui non avevo mai assistito prima d’ora nei miei anni di monitoraggio elettorale”, ha detto Favorito, che ha sottolineato di non essere né repubblicano né tantomeno un sostenitore di Donald Trump. Secondo l’osservatore, “sembrava che qualcuno avesse scaricato un enorme lotto di schede per corrispondenza per Biden nel sistema durante la notte”.

“Un candidato non poteva salire di 20mila e l’altro non fare nulla sottolinea il Giornale– nella contea di Fulton o in qualsiasi contea della Georgia”, ha affermato. “Semplicemente non può succedere”. Favorito ha poi aggiunto: “Penso che scopriranno che la causa principale dell’irregolarità riguardava il software elettronico, e penso che cambierà sostanzialmente i risultati”. Il sospetto è che non sia stato un caso isolato. “Avrebbero potuto esserci altre irregolarità – ha spiegato – ma non sono mai state segnalate perché hanno eliminato gli osservatori”. Il 10 novembre Favorito ha inviato la sua testimonianza al segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger, raccomandando un riconteggio completo e manuale: richiesta accolta due giorni fa da Raffensperger. Attualmente, con il 99% delle sezioni scrutinate scrutinate, Joe Biden è davanti a Donald Trump in Georgia di circa 15mila voti.

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