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La procura spagnola ha chiesto alla giudice della Adiencia Nacioanl Carmen Lamela di decidere la detenzione preventiva senza cauzione per tutti i membri del Govern catalano accusati di "ribellione", meno che per l'ex ministro Santi Villa che si era dimesso il giorno prima della dichiarazione di indipendenza, riferisce Tv3

Il presidente destituito della Catalogna Carles Puigdemont non tornerà in Spagna nelle prossime settimane e di sicuro non andrà all'udienza. Lo ha detto l'avvocato fiammingo Paul Bekaert parlando al network Vtm. Per come sono le cose ora non vedo le condizioni "affinché torni nelle prossime settimane", ha detto Bekaert. Alla tv fiamminga Vrt Bekaert ha inoltre spiegato che lotteranno contro qualsiasi richiesta di estradizione arrivi dalla Spagna.

"Un mese dal referendum catalano del primo ottobre. Malgrado la violenza e le minacce passate e presenti, continuiamo a lavorare. Orgoglio di popolo", ha scritto Puigdemont su Twitter.

Il vicepresidente catalano destituito, Oriol Junqueras, è stato il primo ad arrivare stamani all'Audiencia Nacional che lo ha convocato insieme agli altri ex membri del 'Govern' indagati per "ribellione". Lo scrive La Vanguardia.

Come riferiscono le agenzie si sono conclusi gli interrogatori alla Audiencia Nacional di Madrid del vicepresidente catalano Oriol Junqueras e degli altri 8 membri del governo destituito da Madrid accusati di ribellione. Tutti si sono rifiutati di rispondere alle su domande meno l'ex ministro Santi Villa che si era dimesso prima della dichiarazione di indipendenza adottata dal Parlament. Villa ha parlato per circa 40 minuti.

Migliaia di catalani si sono concentrati in tutto il paese davanti ai luoghi di lavoro a mezzogiorno per un minuto di silenzio all'appello delle organizzazioni della società civile indipendentista per protestare contro il «processo politico» avviato contro il Govern. Centinaia di persone si sono riunite davanti al Palazzo della Generalità a Barcellona gridando «Puigdemont è il nostro Presidente», «Llibertat!» e cantando l'inno di Els Segadors.
Anche la presidente del parlamento catalano Carme Forcadell, imputata per 'ribellione', è giunta alla sede del Tribunale Supremo di Madrid, dove deve essere interrogata da un giudice. Nella sede della Audiencia Nacional, a poche decine di metri di distanza, si trovano già i membri del Govern imputati in una causa parallela. Non dovrebbero rispondere alle domande del magistrato

La procura spagnola, intanto, ha chiesto al giudice del tribunale supremo Pablo Llarena che la presidente del Parlament catalano Carme Forcdell e gli altri membri della presidenza accusati di «ribellione» siano posti sotto «vigilanza» della polizia fino al loro interrogatorio giovedì prossimo. 

"La attesa diffusione dei JFKFiles avrà luogo domani. Molto interessante!", aveva twittato Donald Trump mercoledi', alla vigilia della scadenza di legge dei 25 anni per la pubblicazione di tutti i documenti sull'assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Invece alla fine ha ceduto alle pressioni di Cia, Fbi ed altre agenzie, autorizzando la pubblicazione di 2.800 file (gia' online sul sito degli Archivi nazionali) ma mantenendone segreti per almeno altrei sei mesi oltre 300, per questioni di "sicurezza nazionale". Una decisione che ha sollevato delusioni e polemiche, alimentando le teorie cospirative sull'omicidio piu' indagato della storia Usa.

Cosa nascondo i file ancora classificati? C'erano 25 anni di tempo per prepararsi a questa storica scadenza, e almeno nove mesi per l'amministrazione Trump, perche' questo rinvio dell' ultima ora? Sono alcuni degli interrogativi fioccati in serata, dopo la decisione del presidente, che ha ordinato nei prossimi sei mesi un ulteriore esame dei documenti rimasti top secret. 

Desecretati i documenti sull'assassinio dell'ex presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, ucciso il 22 novembre 1963 a Dallas (Texas). Rinviata di sei mesi la divulgazione di circa 500 documenti per motivi di "sicurezza nazionale", in quanto ritenuti troppo "sensibili"

Bisognera' attendere quindi il prossimo 26 aprile per vedere se quei documenti contengono rivelazioni utili a chiarire se l'ex marine Lee Harvey Oswald fu l'unico ad agire e a sparare a Jfk. Nel frattempo storici ed esperti si soni tuffati sugli altri atti divulgati a caccia di nuovi dettagli di un mistero che dura da 54 anni. 

La decisione di non divulgare tutti i documenti rischia di alimentare ancora l'enorme numero di teorie complottiste sullamorte di Jfk. Ne è convinto il deputato della Georgia John Lewis, icona del movimento per i diritti civili e amico del presidente Kennedy: "Credo che ci saranno storiografi, studiosi o scrittori, che porranno ancora questioni su cosa sia accaduto e come".

Stiamo parlando di documenti che riguardano i tragici fatti del 22 novembre 1963, quando il presidente Kennedy fu ucciso a Dallas. Anche se rimane molto scetticismo alcuni sperano di poter trovare alcuni dettagli utili a fare luce su quanto accaduto, a partire dal viaggio che il killer, Lee Harvey Oswald, fece a Città del Messico due mesi prima dell'attentato, incontrando alcune spie cubane e russe.

Un documento rientra nelle indagini sulla possibilità che dietro l’omicidio di Kennedy vi fosse Cuba. "La commissione ha determinato che agenti della Cia erano coinvolti in pianificazioni in questo Paese con determinati cittadini e altri per cercare di assassinare il premier Castro", si legge nel documento. In altri file relativi alle attività anti-castriste degli Stati Uniti si considera la possibilità di contaminare i raccolti a Cuba con "agenti biologici" che apparirebbero come fenomeni naturali. Il piano viene definito "Operazione mangusta". In un altro dossier, sempre nell’ambito dei piani per ribaltare il regime castrista, viene illustrata la proposta di lanciare volantini sull’isola con i nomi dei funzionari comunisti da uccidere con vicino l’ammontare, differente per ciascuno di questi, della ricompensa.Questo era uno dei documenti desecretati, risalente al 1975 e denominato "sommario dei fatti", si parla di alcuni tentativi della Cia per uccidere il presidente cubano Fidel Castro. 

Intanto secondo ricerche giornalistiche che parlano di chi era in verità secondo loro il Presidente assassinato rivelano che Kennedy era tutto diverso da quella icona della sinistra Italiana :

Kennedy fu secondo il giornale un guerrafondaio e non un pacifista: eroe militare durante la Seconda guerra mondiale come ufficiale di Marina cui vengono attribuiti molti atti eroici. Portò il mondo sull'orlo della Terza guerra mondiale durante la crisi dei missili sovietici impiantati nella Cuba di Fidel Castro dal segretario del Pcus Nikita Krusciov successore di Stalin dopo la parentesi di Malenkov minacciando un attacco atomico se i sovietici non avessero ritirato le loro armi dai Caraibi. E poi condusse gli Stati Uniti nel pantano della guerra del Vietnam, territorio che era stato a lungo una colonia francese, poi occupata dai giapponesi durante la guerra e infine suddivisa come la Corea in due Stati di cui uno comunista al Nord e uno filo-occidentale al Sud. I Vietmin, partigiani comunisti del Sud, avevano già sconfitto i francesi a Ben Diem-Phu e la potenza coloniale europea si era ritirata dallo scacchiere indocinese. Fu una scelta di Kennedy quella di impedire al Nord comunista di impossessarsi del Sud cosa che alla fine di una martoriata guerra avvenne lo stesso ingaggiando un conflitto militare senza soluzioni che spaccò il suo Paese i giovani americani fuggivano in Canada per non partire per il Vietnam e provocò una delle più profonde crisi morali della storia dell'Occidente. Ricchissimo, figlio di un padre filonazista in combutta con i trafficanti di alcol, John Fitzgerald fu un giovane uomo viziato, privo di qualsiasi scrupolo e tuttavia considerato una icona insieme alle figure contemporanee di Krusciov che a causa sua perse il posto di leader sovietico e di papa Giovanni XXIII.

Durante il proibizionismo secondo il quotidiano Italiano negli anni Venti il vecchio Joe trafficò con i gangster mafiosi italo-americani per i quali importava liquori sotto copertura diplomatica. Uno di loro, Sam Giancana, ultimo autista di Al Capone, è uno dei sospettati per l'omicidio di John Kennedy. La storia è complicata: il fratello di John, Robert Kennedy assassinato a sua volta nel 1968 aveva fatto carriera come procuratore generale perseguendo Giancana e gli ultimi gangster. Poi ci fu un rovesciamento di fronti: Joe Kennedy padre fece un accordo con Giancana facendolo scagionare dal figlio Robert in cambio di un appoggio elettorale per l'altro figlio John. Ma dopo l'elezione l'accordo fu rotto dai fratelli Kennedy e Giancana passò al contrattacco legandosi con esuli cubani nemici di Kennedy, colpevole ai loro occhi di non aver concesso una copertura aerea all'invasione di Cuba degli esuli cubani alla Baia dei Porci. Giancana era in contatto anche con i castristi e con i sovietici, in un intrico mai chiarito di spionaggio, contrabbando e mafia.

Come uomo, secondo rivelazioni giornalistiche fu il più infedele puttaniere del XX secolo, non soltanto per la sua lunga e tragica storia con l'attrice Marilyn Monroe che condivideva nel suo letto con il fratello Robert, assassinato pochi anni dopo la sua morte, ma perché trasformò la Casa Bianca in una gigantesca casa di appuntamenti mondani ed erotici, accompagnati dall'immancabile voce di Frank Sinatra, a sua volta legato agli ambienti più opachi della mafia siculo-americana, di cui faceva parte anche Sam Giancana, l'ultimo autista di Al Capone, personaggio ambiguo indagato e protetto a fasi alterne dalla famiglia Kennedy e sospettato di esser parte del complotto finale che portò all'omicidio del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti.

Secondo il Giornale la povera Marilyn Monroe, amante di entrambi i fratelli Kennedy memorabile la sua performance «Happy birthday mister President» che mandò in bestia la First Lady Jacqueline Kennedy, futura signora Onassis pagò con la vita gli intrighi della corte alla quale i giornali scandalistici avevano dato il nome di «Camelot», come quella di re Artù. Marilyn fu uccisa con una supposta di barbiturici e la sua morte archiviata come suicidio, ma si sospetta Giancana come esecutore del delitto. John Kennedy aveva trasformato la Casa Bianca in un bordello di lusso e una reggia per milionari e artisti come Frank Sinatra, tutti più o meno connessi con la mafia siciliana. Nato come presidente democratico e «di sinistra» il trentacinquesimo presidente fu adottato nell'empireo degli eroi americani nazionalisti di destra, una icona utile sia per democratici che repubblicani. Fu certamente un giovane uomo duro, affascinante, seduttore spregiudicato ed eroe di guerra, un sex symbol utile per cattolici e protestanti, pacifisti e guerrafondai, un presidente che cominciò le guerre che altri dovettero chiudere e che trascinò il mondo del baratro.

"L'opinione pubblica americana aspetta - e merita - che il suo governo fornisca il maggiore accesso possibile agli atti sull'assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy in modo che la gente possa finalmente essere pienamente informata su tutti gli aspetti di questo evento cruciale", ha premesso il tycoon in un memorandum, spiegando la sua decisione di "togliere il velo" sulla vicenda. Ma poi aggiunge di non avere "alcuna scelta" - oggi - se non accettare" le censure proposte dai dipartimenti e dalle agenzie della sua amministrazione "piuttosto di consentire un danno irreparabile alla nostra sicurezza nazionale". La temporanea mancata pubblicazione di alcuni file, a suo avviso, "e' necessaria per evitare danni alla difesa militare, alle operazioni di intelligence, alle forze dell'ordine, o alla conduzione di relazioni straniere che sono di tale serieta' da pesare piu' del pubblico interesse nella pubblicazione immediata". Insomma, in quei file, alcuni dei quali degli anni Novanta, come ha spiegato in serata la Cia, ci sono i nomi di agenti ed ex agenti segreti, come pure metodi specifici di intelligence e collaborazioni che restano vitali per proteggere la sicurezza del Paese.

Quando arrivò la lettera della Bce, ad agosto di quello stesso anno, i conti stavano migliorando». Parola di Luca Ricolfi, presidente della Fondazione David Hume e docente dell'Università di Torino, che ieri ha presentato un nuovo strumento di misurazione dello stato di salute delle finanze pubbliche dei Paesi sviluppati: l'indice di vulnerabilità strutturale. L'equazione sottostante a questo nuovo indicatore, calcolato dal 1999 a oggi per 40 nazioni dell'Ocse, è in grado di predire le crisi strutturali dell'economia. Ebbene, nel famigerato 2011 l'Italia del vituperato governo Berlusconi stava migliorando rispetto al picco di rischio del 2009-2010.

In una sua inchiesta il quotidiano il Giornale con la firma di Gian Maria De Francesco scopre che tra maggio e giugno del 2011 i fondamentali dell'economia italiana stavano migliorando e non indebolendosi

Perché allora quel crollo? continua il quotidiano : Perché l'indice è stato elaborato in base parametri diversi rispetto a quelli utilizzati dalle agenzie di rating e dei mercati finanziari. Si tiene molto in conto l'andamento del debito pubblico e dei suoi detentori esteri, insomma non si concentra su fattori estemporanei che le Borse, ad esempio, sopravvalutano. In quest'ottica, ha aggiunto Ricolfi, «i governi Monti e Letta hanno aumentato molto la vulnerabilità del nostro Paese» che ha iniziato a ridursi lentamente solo a partire dall'anno scorso. 

L'indice di vulnerabilità strutturale attualmente colloca l'Italia allo stesso livello di Francia e Belgio, leggermente al di sotto del Giappone. Le grandi agenzie di rating, però, valutano il nostro rischio default superiore a quello della Spagna e solo un po' minore di quello della Romania. «Non sarebbe un problema se dal rating non dipendessero pesantemente le scelte dei grandi investitori internazionali», ha sottolineato al giornale Ricolfi, presentando anche il nuovo sito Internet della Fondazione, e adombrando il pericolo di una nuova crisi se «le nuove regole per valutare i titoli di Stato detenuti dalle banche, dovessero essere alterate in funzione dei report delle agenzie».

Potrebbe, quindi, crearsi una tempesta perfetta come nel 2011 quando il mercato restò indifferente dinanzi alle azioni intraprese dall'esecutivo Berlusconi colpendo l'Italia a suon di spread. «Meglio cominciare a ridurre il nostro debito pubblico seriamente piuttosto che negoziare con l'Europa una flessibilità che ci renderebbe più vulnerabili agli attacchi», ha concluso Ricolfi.

Si svolgerà il prossimo venerdì 27 ottobre, presso la Sala Mappamondo della Camera dei Deputati, il Seminario "Le Donne Libiche: unire idee e sforzi per vincere le principali sfide interne ed esterne", promosso e organizzato da MINERVA con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Porteranno i saluti istituzionali:

Marina Sereni,Vice-Presidente della Camera dei Deputati; Luca Giansanti, Ambasciatore, Direttore Generale per gli Affari Politici e di Sicurezza – MAECI;

in rappresentanza dell'Ambasciatore Libico in Italia,H.E. Ahmed Elmabrouk Safar, parteciperanno il Primo Segretario d' Ambasciata, Ms Aml Alamushi e il Terzo Segretario, MrTayeb Elarbi. Per l’organizzazione non profit Minerva interverrà il suo Presidente, Pierluigi Severi.

Un qualificato panel di donne libiche, rappresentanti della società e delle istituzioni, sarà chiamato a proseguire la discussione e il confronto con esperti italiani e rappresentanti delle istituzioni sugli strumenti giuridici, economici, sociali che in una fase di “state-building” sono necessari per favorire il riconoscimento della parità di genere; le azioni di contrasto contro ogni fanatismo e violenza, incluso il traffico criminale dei flussi migratori tra Libia e Italia, e i ruoli di leadership femminile nel percorso democratico verso il nuovo Stato libico

In ordine di intervento:

Amal Altahir Alhaaj, Attivista e presidente dell’associazione “Free Communications Development.org”; Samira ElMasoudi, Presidente dell’associazione “Development Organization in Support of Youth and Women in Libya”; Piero Fassino, Presidente CeSPI (Centro Studi di Politica Internazionale); Turkia Alwaer, Membro del Dialogo Nazionale Libico; Lia Quartapelle, Parlamentare, Camera dei Deputati, Commissione Affari Esteri e Comunitari; Saleha Sdaga, Docente di Diritto Internazionale presso l'Università di Bengasi;

Annamaria Meligrana, Esperta di Cooperazione, Ufficio VII- Emergenza e Stati Fragili Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – AICS; Gawza Ali, Consulente legale del Ministero dell'Agricoltura in Libia; Daniela Melfa , Docente di Storia dei paesi dell'Africa Mediterranea e del Medio Oriente, Università di Catania; Omima Alfakhri, Avvocato; Angela Caponnetto, Giornalista Rainews24; Najat Elmalti, Attivista, “Nana Marin Organization”; Souadou Lagdaf, Docente di Storia dei Paesi Islamici,Università di Catania. 

E con la partecipazione di: 

Rahma Adam, Membro del Parlamento Libico; Soad Shelli, Membro del Parlamento libico; Naimah Alnaeli, Attivista, "Free Communication Development.org"; Zahiyah Ali,Attivista, "Limada ana Organization"; Nawal Hamroni, Attivista, "Ibsher Organization".

Il Seminario di Roma, che segue quello di Catania dello scorso giugno, è l’ultima tappa del percorso progettuale "A sostegno delle Donne Libiche per affermare Diritti e Cultura della Libertà nella Società e in Costituzione"

Nel tempo, l’attività di cooperazione bilaterale ha alimentato una rete di relazioni con una vasta rappresentanza del mondo femminile libico, con la finalità di favorire e consolidare nuovi canali di dialogo tra le donne libiche, l’Italia, l’Europa e la Comunità internazionale, e di far valere i richiami della Risoluzione ONU 1325/2000 dando voce alle libiche del Dialogo Nazionale, alle parlamentari e alle rappresentanti di associazioni e forum della società civile, riconoscendone il contributo di partecipazione al superamento in senso democratico della crisi in Libia, che investe la sicurezza e la pace nel Mediterraneo.

MINERVA è una cooperativa non profit che opera in Italia, in Europa e nel Mondo. Nel corso degli anni ha ampliato la sua missione alla realizzazione di progetti di cooperazione internazionale, attività internazionali sostenute dal Ministero Italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, dall'Unione Europea e da stake holders pubblici e privati.

Tra le manifestazioni più significative, ogni anno promuove e organizza il PREMIO MINERVA ANNA MARIA MAMMOLITI, primo riconoscimento italiano dedicato alle donne, giunto quest’anno alla 27esima edizione con l’adesione del Presidente della Repubblica Italiana, e istituito da Anna Maria Mammoliti, fondatrice dell’associazione Il Club delle Donne nel 1983 e del mensile Minerva.

 

 

'La politica è uscita da questa partita, adesso tocca al popolo'. E' un Luca Zaia raggiante quello che si presenta in conferenza dopo il  successo del veneto nel referendum per l'autonomia che ha visto una partecipazione del 57,2% degli elettori, che per oltre il 98% hanno votato sì all'autonomia della regione

Il risultato uscito dalle urne di Lombardia e Veneto conferma ciò che già si sapeva: e cioè che in tali regioni c'è una decisa aspirazione a gestirsi da sé e farsi carico in autonomia dei propri problemi. 

Le nuvole maggiori si addensano sul capo di Matteo Salvini, che per questa consultazione popolare si è speso poco, con discorsi di maniera, anche se ieri andando a votare si è augurato che tanta gente affollasse i seggi «per un referendum giusto che chiede cose giuste», una «novità che ci porterebbe all'avanguardia a livello mondiale». E in serata su Fb si è limitato a rimarcare con un «Sì» il risultato di Zaia, non quello di Maroni. Per il numero uno della Lega quello uscito dalle urne del «Lombardo-Veneto» rappresenta un successo del partito, «una grande partecipazione popolare, una prova di democrazia», come dicono i suoi. 

Lo rafforza sia come immagine nazionale che nelle trattative all'interno del centrodestra per le elezioni politiche, ma può anche essere un freno al progetto di costruire una nuova forza nazionale, oltre il Nord e alla conquista del Meridione, dov'è già nata senza troppo successo la sigla «Noi con Salvini». Perché tanta voglia di autonomia nelle più ricche regioni settentrionali, che può contagiare anche altre, può spingere il Carroccio verso un ritorno alla missione originaria, federalista se non secessionista, che Salvini vuole archiviare. Certo il voto di ieri è una vittoria dell'ala autonomista, che contrasta quella salviniana ed è più vicina a Berlusconi e a Forza Italia. Torna un po' in auge anche Umberto Bossi, per cui l'indipendenza della Padania resta «un sogno», come ha detto ieri al seggio vicino alla sede storica della Lega in via Bellerio

Per Zaia, c'è piena "collaborazione con la Lombardia sul piano delle metodologie da seguire nella trattativa con il governo, ma sarà inevitabile che la Lombardia avrà delle sue istanze e peculiariatà differenti a quelle del Veneto quando andremo al 'vedo'". Lo dice in conferenza stampa commentando l'esito del referendum. "Ogni Regione - sottolinea - ha la sua storia ma si va avanti nella trattativa assieme". Intanto mancano ancora i risultati definitivi del referendum in Lombardia. 

Il governatore della Lombardia Maroni non trionfa come Zaia, ma riesce nello scopo di superare l'asticella fissata al 34% dei votanti: «Con lo spoglio ancora in corso la proiezione è superiore al 40%», annunciava il governatore allo scoccare delle 23. Alle 12 qualche preoccupazione c'era stata per quell'11% di affluenza, metà che in Veneto, ma alla fine il risultato dovrebbe rafforzare Bobo nella corsa alla riconferma come presidente della Regione, anche se la sua candidatura non sarebbe blindata. E gli ruba un po' la scena autonomista Giorgio Gori, candidato in pectore del Pd per Palazzo Lombardia e sindaco schierato per il Sì di quella Bergamo che ha registrato il top di affluenza.

In una intervista a Reppublica  il ministro Maurizio Martina si affretta a far presente ai governatori leghisti Roberto Maroni e Luca Zaia che le materie fiscali, e anche altre (come la sicurezza), "non sono e non possono essere materia di trattativa né con il Veneto, né con la Lombardia e neanche con l'Emilia Romagna, che ha avviato un'interlocuzione con il governo senza passare da un referendum". Inizia così, in salita,la trattativa del Nord per avere piu soldi e piu poteri. Ma su un punto Zaia resta fermo: "Martina si occupa di agricoltura. Il nostro interlocutore sia il presidente del Consiglio". Quindi, la palla ora passa a Paolo Gentiloni.

"Non lo dico io. Lo dice la Costituzione...". Il renziano Martina passa subito all'attacco. I numeri dei referendum sulle autonomie di ieri parlano chiaro.In Lombardia l' affluenza ha superato il 40%  mentre in Veneto ha sfiorato il 60% . Ora il governo Gentiloni è obbligato ad aprire il confronto: non può rimanere sordo dinnanzi a questo voto. "Oggi approviamo la piattaforma negoziale - spiega Zaia a Rtl 102.5 - tratteremo su questa base direttamente con questo governo". Ma da Roma il ministro Martina già sventola gli articoli 116 e 117 della Costituzione per frenare gli entusiasmi dei lombardi e dei veneti. "Questi articoli - spiega a Repubblica - indicano chiaramente gli ambiti su cui ci può essere una diversa distribuzione delle competenze

È risaputo che il processo autonomista deve fare i conti con due difficoltà maggiori. In primo luogo, a Roma non c'è una maggioranza disposta a riconoscere a lombardi e veneti alcuna facoltà di autogestirsi, e d'altra parte non si capisce per quale motivo i parlamentari del resto d'Italia dovrebbero favorire l'autonomia altrui. In secondo luogo, se si vuole essere concreti e andare al sodo, è evidente che un'autonomia non solo di facciata implica che i soldi prodotti nelle due regioni e che ora spariscono dalla disponibilità dei lombardo-veneti restino (in tutto o in parte) sul territorio. E a questo punto l'ostilità dell'insieme di deputati e senatori è prevedibile, anche in considerazione dello stato pietoso dei conti pubblici.

L'unica strada, forse, è quella d'immaginare un processo di crescente autogoverno che riguardi l'Italia intera, e che localizzi competenze, prelievo e spesa. C'è insomma l'esigenza che quanti nel Mezzogiorno dovessero perdere quote di assistenzialismo possano poter ridefinire le proprie regole, facendosi maggiormente attrattivi. La Calabria difficilmente guarderà con favore una richiesta lombarda di non destinare più al Sud una parte del proprio Pil, ma le cose possono cambiare se essa è in grado di definire tassazione e regole tali da favorire la crescita locale e stimolare l'arrivo di investimenti. Ad ogni modo, non ci si faccia illusioni: la strada che lombardi e veneti devono percorrere per poter autogovernarsi è davvero tutta in salita.

Ieri in Lombardia e Veneto "è stata una lezione di democrazia per tutta Europa, abbiamo scelto la via legale, pacifica e costituzionale. La stessa opportunità la offriremo da nord a sud a chi ce lo chiederà". Lo ha detto il segretario della Lega, Matteo Salvini, in conferenza stampa in via Bellerio. "Quelli che dicevano che la linea nazionale della Lega avrebbe trovato problemi al Nord - ha proseguito Salvini - non ha capito un accidente. Richieste di autonomia hanno convinto 5,5 milioni persone a votare, e Maroni e Zaia avranno mandato pieno mandato a trattare. Rido quando leggo certe ricostruzioni di divisioni", ha aggiunto il segretario della Lega. 

"Adesso li pubblicheremo - ha detto il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni - abbiamo avuto problemi con 300 chiavette, problemi tecnici, che stiamo risolvendo, di collimazione di dati". Secondo la Regione Lombardia, la stima del dato finale sull'affluenza nel referendum sull'autonomia "oscilla tra il 38 e il 39% per un numero di votanti di circa 3 milioni" quando sono state esaminate il 95% delle 24mila Voting machine. Allo stato - spiega la Regione in una nota - l'affluenza è pari 37,07. Si sono registrate alcune criticità tecniche nella fase di riversamento dei dati della rimanenti Voting machine e pertanto i risultati completi potranno essere resi noti a operazioni concluse. .

Veneti e lombardi hanno forte la consapevolezza di dare allo Stato molto più di quanto non ricevano, dato che queste due regioni perdono complessivamente oltre 70 miliardi ogni anno, destinati ad altre aree del Paese. Che succederà, ora? Roberto Maroni e Luca Zaia ricevono dalle urne una decisa spinta ad avviare una vera trattativa con Roma: su soldi e poteri. Anche se fino a oggi ogni richiesta di applicare il titolo V della Costituzione è stata ignorata, a seguito del voto ci troviamo in una situazione inedita, poiché le uniche due regioni che nel 2006 avevano votato a maggioranza per la riforma costituzionale della «devolution» sono ancora in prima fila per chiedere che si rafforzino le autonomie e s'indebolisca il potere centrale.

La battaglia non sarà facile e c'è il rischio, naturalmente, che la montagna partorisca un topolino. Tutti sanno che alla fine ci si potrebbe limitare a chiedere e ottenere solo qualche limitata competenza regionale in più, ad esempio, sulla scuola. Va però ricordato che proprio al fine d'indebolire la posizione delle due regioni impegnate nel referendum, nei giorni scorsi il governo di Roma e l'Emilia Romagna hanno firmato una dichiarazione che formalizza un percorso volto a dare più competenze alla regione amministrata dal centrosinistra. L'obiettivo dell'esecutivo guidato da Gentiloni era chiaro: mostrare come i referendum fossero inutili e come si sia trattato di uno spreco che poteva essere evitato.

Il documento firmato lo scorso 18 ottobre, però, potrebbe essere un boomerang, poiché ormai ogni richiesta lombarda e veneta di avviare un percorso analogo deve essere presa in esame. E questo crea problemi a tutti: al governo, che dovrà mettere qualche contenuto nelle sue generiche intenzioni in favore delle autonomie; ai presidenti di Lombardia e Veneto, che dopo il voto devono mostrarsi molto determinati nei loro rapporti con l'esecutivo.

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