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L’Europa degli Stati rischia la palude politica. La situazione dei singoli Paesi è di instabilità. Se si guarda alla situazione interna dei singoli Paesi europei, in particolari quelli dell’area occidentale, l’impressione è infatti quella di una crescente instabilità, con governi che faticano a nascere o che si reggono su maggioranze parlamentari traballanti. In prospettiva, è l’Europa di Bruxelles che rischia la paralisi. Vediamo come si svolge la situazione in Germania che al improvviso la Merkel e diventato un problema per i partiti : 

Ed e sempre per lo stesso motivo l'Spd ha negato ancora una volta l'ipotesi di una Grosse Koalition: "Non siamo a disposizione", ha ribadito Martin Schulz, che ha perso la faccia con il crollo alle urne del 24 settembre. Loro con la cancelliera non hanno solo governato, hanno messo paletti, vinto battaglie, eppure non vi è stata traccia di riconoscenza dagli elettori. Merkel si è affidata al presidente della Repubblica, incontrato a Bellevue, per riferire l'andamento dei colloqui esplorativi clamorosamente naufragati a pochi minuti dalla mezzanotte, quando il capo dei liberali ha portato via il suo partito, affermando che mancava la "fiducia" reciproca.

E i populisti di destra di Afd le hanno indicato la porta: "E' tempo che vada". Nell'Unione ha il sostegno di Horst Seehofer, che ne appoggerebbe la ricandidatura. Ma il presidente della Csu bavarese potrebbe avere i giorni contati politicamente. Lindner, che si è giocato la credibilità fra i partiti con un colpo di spugna, ha provato a spiegare: "Non è stata una decisione presa alla leggera. Non abbiamo tradito i nostri elettori e le nostre idee. Non c'era un progetto comune". A quanto trapela quello che sarebbe mancato è qualcosa in cui i liberali potessero rispecchiarsi: la Fdp non si sarebbe riconosciuta in una trattativa zeppa di dettagli, in cui Merkel era troppo concentrata ad assecondare Verdi e Csu.

Nella gelida notte berlinese il problema tedesco era parso il ritorno dei liberali, l'impazienza se non il protagonismo del suo leader giovane e un po' arrivista. Ma, in realtà, se la politica in Germania ne ha uno, quel problema oggi si chiama Angela Merkel. Ha detto che ora non si dimette, "al paese serve stabilità". E dunque sembrano assai più vicine le nuove elezioni, le preferisce al governo di minoranza e ora la parola tocca al presidente.

La fuoriclasse della Cdu, leader dell'Europa e "del mondo occidentale", è alle prese con una particolare forma di nemesi, che le dà certamente da riflettere: tutti, adesso, hanno il terrore di governare con lei. Per questo motivo è saltato ieri il tavolo 'giamaica', che ha visto tirarsi indietro i teoricamente affini liberali di Christian Lindner il partito traumatizzato, che governando con la Bundeskanzlerin finì fuori dal Parlamento nel 2013.

"Due settimane fa glielo aveva detto che se fosse andata avanti così la cosa, per i liberali non poteva andare", dice una fonte all'ansa. La crisi tedesca mette in angoscia l'economia - la Germania ha perso la partita sull'Eba, l'agenzia sulle banche andata a Parigi - e i vicini europei, che temono lo stallo, o peggio la destabilizzazione. Spiegel riferisce però del consiglio del premier olandese, che ha dovuto rinviare la bilaterale in cancelleria. Mark Rutte sconsiglia di tornare la voto e invita a non seppellire il progetto della coalizione giamaica. Facendo passare un po' di tempo, potrebbe ancora funzionare, come dimostra la sua esperienza.

E Frank-Walter Steinmeier ha rivolto un monito severo a tutti: "Chi si candida per assumere la responsabilità politica, non può tirarsi indietro quando ce l'ha nelle mani. Non si può semplicemente rimandare indietro la responsabilità ai cittadini". In Europa si guarderebbe "con grande preoccupazione al paese più forte economicamente se le forze politiche non fossero in grado di prendersi le loro responsabilità". 

Ce l'aveva con tutti, e ha annunciato colloqui coi leader della 'giamaica', ma anche con gli altri, che hanno possibili convergenze di programma (la sua Spd). Che la moral suasion dell'ex capo della diplomazia possa far tornare indietro Schulz - accomodatosi all'opposizione dalla sera delle elezioni - è tutto da vedere. Dietro l'ex candidato c'è ancora tutta la vecchia guardia, che non ha apprezzato la corsa verso la panchina. Un governo di minoranza sembra, invece, non volerlo nessuno: la stessa Merkel, alla Zdf, ha affermato di preferire il voto a questa opzione. Intanto oggi la cancelliera è apparsa più debole, e sola, che mai. Spd e Linke non hanno usato giri di parole: "Ha fallito".

E' fallito per ora in Germania il tentativo di creare un governo sostenuto dalla Cdu di Angela Merkel, dai liberali e dai verdi, la cosiddetta coalizione "Giamaica", dai colori dei tre pariti che ricordano queli della bandiera del paese dei Caraibi. E ora sul Paese aleggia lo spettro di nuove elezioni

I liberali di Christian Lindner hanno fatto saltare il tavolo delle trattative per costruire un "governo stabile" in Germania perché, a loro dire, «fra i partiti manca la fiducia di base». E dunque, «meglio non governare, che governare male». La fuga in avanti di Lindner ha lasciato però tutti sorpresi e isola, ancora una volta, il partito liberale tedesco. «Io credo che si sarebbe potuto trovare il filo per arrivare a una soluzione. E mi dispiace che non si sia arrivati a un accordo», ha scandito Angela Merkel un'ora dopo. «Mi recherò dal Presidente della Repubblica per descrivere lo stato delle cose», ha poi annunciato la cancelliera.

Ora, salvo sorprese e ricuciture dell'ultima ora, le strade - mai sperimentate prima in Germania - sono o un governo di minoranza del cancelliere Angela Merkel Cdu/Csu, o tornare al voto dopo il risultato inconcludente del 24 settembre scorso. Con la possibilità di un nuovo exploit della estrema destra di Alternative fuer Deutschland (Afd), che da 0 deputati nel 2013 ne hanno conquistati quasi 100.

I social democratici di Martin Schulz, numericamente in grado di formare un nuovo governo di Grosse Koalition con Merkel, come l'uscente, non sono disponibili. Per Merkel il quarto mandato per entrare nella storia, è al momento più lontano.

Ieri il leader della Spd Martin Schulz aveva ribadito che il suo partito non prende in considerazione la possibilità di ripristinare la Grande Coalizione della scorsa legislatura in caso di fallimento dei colloqui per una coalizione Giamaica. «Gli elettori hanno respinto la Grande Coalizione», ha affermato, alludendo al crollo della Spd al voto di fine settembre. E venerdì aveva parlato chiaramente di un ritorno alle urne nel caso in cui se ne verificasse la necessità

"È tempo che Angela Merkel se ne vada". Lo ha detto il leader del partito della destra oltranzista tedesca Alternative fuer Deutschland, Alexander Gauland, commentando il fallimento delle trattative per il governo 'giamaica'. 

E cosi il 'sogno giamaicano' finisce qui. A pochi minuti dalla mezzanotte, i liberali di Christian Lindner staccano la spina, il tavolo delle trattative salta, perché, "fra i partiti manca la fiducia di base" per costruire un "governo stabile" in Germania. E dunque, "meglio non governare, che governare male". La parola passa al Presidente della Repubblica. La fuga in avanti del giovane che scalpita da quando il suo partito, l'FDP, è tornato in parlamento, lo scorso 24 settembre, lascia però tutti di stucco e isola, ancora una volta, il partito liberale tedesco.

"Io credo che si sarebbe potuto trovare il filo per arrivare a una soluzione. E mi dispiace, lo dico con tutto il rispetto per i liberali, che non si sia arrivati a un accordo", ha scandito Angela Merkel un'ora dopo. La cancelliera ha anche affermato di "assumersi la responsabilità" e "di fare tutto il possibile perché il paese, anche in queste settimane difficili, sia guidato bene".

"Domani - ha annunciato - mi recherò dal Presidente della Repubblica per descrivere lo stato delle cose". Merkel non è sola nel rimpianto della 'Giamaica', che sarebbe piaciuta a molti tedeschi: "Credo che la maggioranza dei cittadini avrebbe auspicato che trovassimo una soluzione", ha detto anche. A sentire Juergen Trittin, il negoziatore degli ecologisti, che ha fatto più di una volta saltare i nervi ai conservatori, nella sede del Land del Baden-Wuerttenberg, dove oggi si è tenuta l'ultima seduta del confronto (l'ultimatum dei liberali era scaduto alle 18) sono rimasti "tutti un po' scioccati e indignati" dal passo di Lindner.

E anche i colleghi Katrin Goering-Eckardt e Cem Oezdemir - il principale ostacolo di un accordo con l'anima più conservatrice della potenziale futura coalizione - hanno assicurato che non si era lontani da una intesa: "Avremmo potuto trovare un accordo, e credo addirittura che non ci sarebbe voluto ancora troppo tempo". Non la vedeva così, evidentemente, Lindner. Alle prime armi con un negoziato di questa portata. In effetti le trattative avevano presentato molti nodi su temi decisivi, come Europa, clima, trasporti, e si erano arenate da qualche giorno sui migranti. Con la richiesta della Csu di una sorta di tetto limite a 200mila ed il rifiuto del ricongiungimento familiare per i profughi che hanno la cosiddetta protezione sussidiaria. Su questo ultimo punto i bavaresi hanno litigato per ore, oggi, con i verdi. 

Ma i liberali avevano manifestato una tangibile impazienza, con atteggiamenti anche più rigorosi. "Non vogliamo piantare in asso i nostri elettori", ha detto infatti a fine serata Lindner. "Si è mostrato che i quattro interlocutori non hanno un progetto comune per la modernizzazione del paese e non hanno una fiducia comune con la quale si possono immaginare i presupposti per un governo stabile". 

Lindner ha raccontato che dopo tante settimane giaceva oggi sul tavolo "un foglio pieno di contraddizioni, domande aperte, e conflitti sugli obiettivi". "Non rimproveriamo a nessuno di voler rispettare i suoi principi, ma lo facciamo anche noi". Parole che consegnano un problema serio al Paese: le nuove elezioni, evocate da più parti in questi giorni, potrebbero riproporre la stessa frammentazione attuale, con una oggettiva difficoltà nella formazione di un governo bicolore (dal momento che i socialdemocratici si sono chiaramente e definitivamente tirati fuori, rifiutando una riedizione della Grosse Koalition).

Resta l'opzione di un governo di minoranza. La formazione più naturale sarebbe proprio la squadra nero-gialla, fra l'unione e i liberali. Ma dopo la mossa di stasera, parte della fiducia è andata certamente perduta. La verde Goering-Eckardt ha invece sottolineato che il partito resterà aperto al dialogo, anche nelle prossime settimane. Un passaggio significativo, fra le tante emozioni di questa notte che chiude una "giornata quasi storica", per dirla con le parole di Frau Merkel.

Era soprannominato Totò “o curtu”, “la belva”, “il capo dei capi” ma per gli uomini di legge Totò Riina resterà sempre il mafioso più pericoloso di Cosa Nostra e la sua morte segna la fine di un’epoca.

Salvatore Riina nasce a Corleone il 16 novembre 1930 e, a soli 13 anni la sua vita viene sconvolta dalla morte padre Giovanni e del fratello minore Francesco, mentre stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba inesplosa per rivenderla insieme al metallo. 

È in questi anni che Totò conosce il boss Luciano Liggio, che lo affiliò nella cosca mafiosa locale, di cui faceva parte anche suo zio Giacomo. A 19 anni Riina viene condannato a 12 anni di carcere per l’uccisione di un suo coetaneo, Domenico Di Matteo, ma viene scarcerato nel 1956 e due anni dopo diventa uno dei sicari più spietati di Liggio nella guerra contro Michele Navarra. Riina, nel 1963, viene arrestato una seconda volta per cinque omicidi “consumati dal settembre 1958 al luglio 1962, in concorso con Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella e altri ignoti”. 

Nel 1969, però, dopo aver minacciato di morte i giudici, viene assolto per insufficienza di prove per gli omicidi che gli erano stati attribuiti e riceve solo una condanna a un anno e sei mesi di reclusione (già scontati a titolo di custodia cautelare) per furto della patente esibita al momento dell’arresto. Tornato a Corleone, viene nuovamente arrestato e mandato al confino per quattro anni in San Giovanni in Persiceto (Bologna) ma, da quel momento, inizia una latitanza che durerà per ben 24 anni.

Il 29 luglio 1983 Riina ordina l’uccisione del giudice Rocco Chinnici, uno degli ideatori del “pool antimafia” ma, nel 1984, l’estradizione di Tommaso Buscetta e la sua decisione di collaborare dà una svolta nella lotta alla mafia. “Non sono un infame, non sono un pentito, non ho tradito Cosa Nostra. È Cosa Nostra che ha tradito se stessa”, dirà Buscetta davanti a Giovanni Falcone. Il 30 gennaio 1992 la Cassazione sancisce l'attendibilità delle dichiarazioni rese da Buscetta e conferma gli ergastoli del Maxiprocesso. Da quel momento fioccano le condanne all’ergastolo per gli innumerevoli omicidi commessi o commissionati. Questo segna l’inizio della stagione delle stragi di mafia che portano all’uccisione del politico Salvo Lima e dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

II 15 gennaio del 1993 Riina viene finalmente catturato dal Capitano Ultimo dei Ros e dal colonnello Mario Mori davanti alla sua villa dove aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza, insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. Alcuni anni dopo la sua cattura dirà:“Io latitante? Per più di vent’anni nessuno mi ha cercato, io prendevo l’autobus, il treno, l’aereo, ho lavorato, ho viaggiato...”. A far discutere, però, è soprattutto la sua deposizione al processo di Palermo del 4 marzo 93, trasmessa dalla Rai, dove Riina dichiarò di essere soltanto un piccolo agricoltore ma questo non lo sottrae dal carcere duro del 41-bis. Il 24 maggio ’94, mentre si trova in Aula per uno dei suoi tanti processi, rilascia a un giornalista delle dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli e si lamenta per le condizioni imposte dal carcere duro.

Cosi il boss dei boss e' morto alle 3.37 nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma Totò Riina. Ieri aveva compiuto 87 anni. Operato due volte nelle scorse settimane, dopo l'ultimo intervento era entrato in coma. La Procura di Parma ha disposto l'autopsia sulla salma perché, ha spiegato il procuratore Antonio Rustico, il decesso è avvenuto in ambiente carcerario e quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti".  

Le condizioni cliniche del boss si sono ulteriormente aggravate e poi sono precipitate una decina di giorni fa, quando dal reparto detenuti dell'ospedale Maggiore è stato trasferito in terapia intensiva-rianimazione, dove è rimasto fino alla morte. I familiari del boss Totò Riina non sono riusciti a incontrarlo prima che morisse nonostante il permesso straordinario ricevuto dal ministro della Giustizia che aveva autorizzato la visita.

Da Le Figaro alla Bbc, da El Mundo al Daily Mail, la notizia della morte di Totò Riina, il "capo dei capi" di Cosa nostra domina questa mattina le homepage delle principali testate europee. «Toto Riina, 'parrain des parrains' de la Mafia sicilienne, est mort», si legge ad esempio sul sito de Le Figaro, dove il «più temuto padrino della storia della mafia siciliana» viene ricordato sopratutto per il suo ruolo nelle morti dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

Mentre Le Monde scrive: «Toto Riina, l'ancien chef de la mafia sicilienne, est mort, selon les médias italiens». El Paìs, il principale quotidiano spagnolo, titola «Morto Riina, il gran capo della mafia siciliana» e all'interno del lungo articolo elenca alcuni dei più efferati omicidi de "La bestia", sospettato di aver ucciso oltre 150 persone. «Muere Toto Riina, el "capo" que desafió al Estado italiano», scrive El Mundo, accompagnando la notizia con un'immagine in bianco e nero del boss siciliano.

Ricorda i 150 omicidi anche il titolo del Mirror («Ruthless Mafia boss Salvatore "Toto" Riina who ordered 150 "hits" during reign of terror dies aged 87) e quello del Daily Mail, che aggiunge nel titolo anche che «il boss della mafia, noto come "La bestia", ordinò di sciogliere nell'acido il figlio di 13 anni di un informatore». Mentre la Bbc, il New York Times e il Washington Post scelgono un più asettico «Il famigerato Capo dei Capi, Totò Riina, muore a 87 anni». «Il padrino della mafia Totò Riina (87 anni) è morto in prigione», è invece il titolo scelto dal Bild. 

Sua la scelta di lanciare un'offensiva armata contro lo Stato nei primi anni '90. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell'omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati. A febbraio scorso, parlando con la moglie in carcere diceva: "sono sempre Totò Riina, farei anche 3.000 anni di carcere". L'ultimo processo a suo carico, ancora in corso, era quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, in cui è imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Ieri, nel giorno del suo 87esimo compleanno, il figlio Giuseppe Salvatore, che ha scontato una pena di 8 anni per mafia, ha pubblicato un post di auguri su FB per il padre. 

«Possono tirare un sospiro di sollievo i tanti potenti che in tutti questi anni hanno sempre temuto potessero venir fuori le verità indicibili su trattativa e stragismo del 1992-93: prima Provenzano e ora Riina sono morti senza parlare, portandosi nella tomba i terribili segreti di cui erano a conoscenza». Lo dice l'ex pm antimafia Antonio Ingroia.

«La morte di Riina copre con una coltre di silenzio omertoso le malefatte di un'intera classe dirigente collusa con la mafia. Per non essere complice di quel silenzio - aggiunge Ingroia - il popolo può e deve ribellarsi contro quella classe politica impunita, responsabile di una delle stagioni più buie della nostra storia».

«Ora si apre la corsa alla successione per il capo dei capi - continua - Perché nonostante fosse al 41 bis, Totò Riina è sempre rimasto il capo formale di Cosa nostra in tutti questi anni di detenzione». 

Riina era malato da anni, ma negli ultimi tempi le sue condizioni erano peggiorate tanto da indurre i legali a chiedere un differimento di pena per motivi di salute. Istanza che il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha respinto a luglio. Quando ormai era chiaro che le sue condizioni erano disperate, poche ore pirma del decesso, il ministro della Giustizia ha concesso ai familiari un incontro straordinario col boss. Riina stava scontando 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi.

Il portavoce della Cei, don Ivan Maffeis ha dichiarato che per Riina, "un funerale pubblico non è pensabile. Ricordo la scomunica del Papa ai mafiosi, la condanna della Chiesa italiana che su questo fenomeno ha una posizione inequivocabile. La Chiesa non si sostituisce al giudizio di Dio ma non possiamo confondere le coscienze".

La morte del boss Totò Riina, come quella di Provenzano, «accenderà nuovi problemi all'interno di Cosa nostra per la successione. Perché finché un capo è vivo, anche se in carcere, non viene sostituito». Così il presidente del Senato, Pietro Grasso, a Carrù, nel cuneese, dove celebra la figura di Luigi Einaudi. «La guardia non si è abbassata - aggiunge la seconda carica dello Stato a proposito delle ricerche del super latitante Matteo Messina Denaro. »È sempre ricercato e speriamo presto di arrivare a un risultato positivo».

«La pietà di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato. Porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla» ha poi scritto Pietro Grasso, in un post pubblicato su Facebook. «Totò Riina, uno dei capi più feroci e spietati di Cosa nostra, è morto. Iniziò da Corleone negli anni 70 una guerra interna alla mafia per conquistarne il dominio assoluto, una sequela di omicidi che hanno insanguinato Palermo e la Sicilia per anni. Una volta diventato il Capo la sua furia si è abbattuta sui giornalisti, i vertici della magistratura e della politica siciliana, sulle forze dell'ordine, su inermi cittadini, sulle persone che con coraggio, senso dello Stato e determinazione hanno cercato di fermarne il potere. 

La strategia di attacco allo Stato ha avuto il suo culmine con le Stragi del 1992, ed è continuata persino dopo il suo arresto con gli attentati del 1993. Quando fu arrestato, lo Stato assestò un colpo decisivo alla sua organizzazione. In oltre 20 anni di detenzione non hai mai voluto collaborare con la giustizia». «La pietà di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato. Porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla», conclude il presidente del Senato.

Totò Riina «è morto da capo» di Cosa Nostra. E «fino alla fine non si è pentito» ha detto il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo uscente, Franco Roberti, sottolineando che la morte del boss dei boss apre ora nuovi scenari. «Ora bisognerà vedere con molta attenzione - spiega - i riflessi che la sua scomparsa avrà su Cosa Nostra, per capire chi punterà a prendere il suo posto». In ogni caso, dice ancora Roberti, anche nell'ultimo atto della vita di Riina, lo Stato a dimostrato la sua forza. «La sua condizione carceraria è stata nient'altro che la conseguenza delle sentenze di condanna. Ma è stato assistito da tutte le garanzie di legge, compresa la possibilità di essere assistito all'ultimo dai familiari. Lo Stato - ha concluso - ha vinto ancora una volta». 

Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando, la firma della deroga al regime del 41 bis per permettere ai familiari di Totò Riina di incontrarlo è stato «un gesto giusto». Il guardasigilli lo ha detto a Bologna, a margine di un convegno sul tema delle migrazioni, ammonendo tuttavia che «la sua morte non ci induca ad abbassare la guardia». «Lo Stato in tutte le occasioni deve marcare la propria differenza e distanza dalla mafia - prosegue Orlando - e fare ciò che la mafia non ha fatto con chi è caduto sotto i suoi colpi, manifestando quella pietà che loro non hanno saputo esprimere. 

Non significa però sottovalutare il pericolo che ancora oggi la mafia rappresenta: muore un protagonista di una stagione, ma la stagione di oggi, seppur forse meno rumorosa e sanguinaria, non è meno pericolosa.La mafia sa cambiare, l'impressione che in qualche modo con questa morte si chiuda una pagina non ci deve indurre in alcun modo ad abbassare la guardia». Il ministro ha concluso affermando che « Riina ha avuto un'assistenza sanitaria e cure adeguate fino all'ultimo momento, lo Stato ha garantito cifra di civiltà che corrisponde alla sua natura democratica».

Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato». Così Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia ha commentato all'ansa la morte del boss Totò Riina.

«Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento», ha aggiunto. «Basta ricordare le recenti intercettazioni in cui gioiva della morte di Giovanni Falcone», ha concluso Maria Falcone riferendosi alle conversazioni registrate in carcere tra Riina e un compagno di detenzione in cui il capomafia rideva ricordando di aver fatto fare al magistrato «la fine del tonno».

«Il nostro sistema giudiziario garantisce e protegge la dignità dell'uomo. Lo ha fatto anche con Riina fino alla fine, anche attraverso la decisione del ministro della Giustizia di consentire ai familiari di incontrarlo nei suoi ultimi istanti di vita».

«Meno se ne parla meglio è». Giuseppe Costanza, autista del giudice Giovanni Falcone e unico sopravvissuto alla strage di Capaci, chiede di attenuare il clamore sulla morte di Totò Riina. «Cerchiamo di ridimensionare - dice - la figura di questo signore. Mettiamolo all'angolo. Non merita altro per quello che è stato e per quello che ha fatto. E se ne vada in silenzio con tutti i suoi segreti». 

 

   

 

In un messaggio inviato ad un convegno sul "fine vita" promosso dalla Pontificia Accademia Papa Francesco tocca un tema che di sicuro farà discutere.

Papa Francesco ha inviato al presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Vincenzo Paglia e a tutti i partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association un messaggio sul fine-vita. Servono leggi condivise. 

In questo messaggio Bergoglio ricorda che è «moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito proporzionalità delle cure». Francesco si rifà alla dottrina classica della Chiesa, enunciata anhce nel Catechismo. L’aspetto di tale criterio è che prende in considerazione «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali» e consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’accanimento terapeutico.

Papa Francesco invita i governi a procedere in questo campo con calma e dialogo per arrivare a leggi il più possibili condivise. «In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società».

«Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede questa ampia visione e uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete». 

Negli anni passati si è acceso un vero e proprio scontro su alcuni casi che hanno scosso la coscienza del Paese. Pensiamo ad esempio a Piergiorgio Welby (2006) o a Eluana Englaro (2009). Nei loro confronti si è trattato di porre fine all'accanimento terapeutico o si è preticata, invece, una forma mascherata di eutanasia? La Chiesa ha sempre condannato chi pone fine volontariamente alla vita dell'uomo. 

Anche se sul tema dell'accanimento terapeutico la Chiesa è fermamente contraria. L'articolo 2278 del Catechismo recita: "L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità".

E lo stesso dicasi per l'uso degli antidolorifici, per alleviare le profonde sofferenze in caso di gravi malattie. "L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, - si legge nell'articolo 2279 - anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile". A ben vedere, quindi, papa Francesco non ha detto nulla di nuovo rispetto alle posizioni ufficiali della Chiesa.

In un altro messaggio Papa Francesco inviato a Frank Bainimarama, premier delle Fiji, presidente della 23/ma Sessione della Conferenza sulla Convenzione-Quadro dell'Onu sui Cambiamenti Climatici (COP-23), in corso a Bonn, letto nel corso dei lavori ha detto che :

"In questi giorni - afferma il Papa - siete riuniti a Bonn, per portare avanti un'altra fase importante dell'Accordo di Parigi: il processo di definizione e costruzione di linee guida, regole e meccanismi istituzionali affinché esso sia realmente efficace e in grado di contribuire al conseguimento degli obiettivi complessi che si propone. In un siffatto percorso è necessario mantenere alta la volontà di collaborazione". In tale prospettiva, prosegue, "desidero ribadire il mio 'invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. 

In tale prospettiva, "appare sempre più necessario prestare attenzione all'educazione e agli stili di vita improntati a un'ecologia integrale, capace di assumere una visione di ricerca onesta e di dialogo aperto dove si intrecciano tra di loro le varie dimensioni dell'Accordo di Parigi". Per il Papa, "si tratta, in concreto, di far propagare una 'coscienza responsabile' verso la nostra casa comune attraverso il contributo di tutti, nell'esplicitazione delle differenti forme di azione e di partenariato tra i vari 'stakeholders', alcune delle quali non mancano di mettere in luce l'ingegno dell'essere umano in favore del bene comune". L'appello del Pontefice alla Cop-23 è quindi di "accelerare la presa di coscienza e di consolidare la volontà di adottare decisioni realmente efficaci per contrastare il fenomeno dei cambiamenti climatici e contestualmente combattere la povertà e promuovere un vero sviluppo 

Tale transizione viene poi ulteriormente sollecitata dall'urgenza climatica che richiede maggiore impegno da parte dei Paesi, alcuni dei quali dovranno cercare di assumere il ruolo di guida di tale transizione, avendo ben a cuore le necessità delle popolazioni più vulnerabili". D'altronde, aggiunge, "non ci si può limitare alla sola dimensione economica e tecnologica: le soluzioni tecniche sono necessarie ma non sufficienti; è essenziale e doveroso tenere attentamente in considerazione anche gli aspetti e gli impatti etici e sociali del nuovo paradigma di sviluppo e di progresso nel breve, medio e lungo periodo".

Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati [per vari motivi che] vanno dalla negazione del problema all'indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche' (cfr Enc. Laudato si', 14)". Francesco ricorda che "lo storico accordo di Parigi" sul clima "indica un chiaro percorso di transizione verso un modello di sviluppo economico a basso o nullo consumo di carbonio, incoraggiando alla solidarietà e facendo leva sui forti legami esistenti tra la lotta al cambiamento climatico e quella alla povertà.

L'economia italiana "sta mostrando positivi segnali di ripresa ma dopo sei anni di stagnazione il processo di recupero sarà probabilmente lungo". E' quanto afferma Standard and Poor's in un rapporto . Secondo informazioni Giornalistiche l'agenzia ricorda l'accelerazione della crescita nel secondo trimestre con il Pil reale in aumento dell'1,5% quest'anno. Fra i fattori positivi la crescita "degli investimenti grazi agli incentivi fiscali" e dal miglioramento delle condizioni di credito con la soluzione della crisi Mps e delle banche venete. Molto da fare resta però sulla "produttività del lavoro".

Secondo Jean-Michel Six, S&P Global Chief Economist "la ripresa sta toccando tutti i settori dell'economia e ciò che particolarmente conforta è che gli investimenti sono tornati a rivestire un ruolo centrale, dopo una pausa a inizio 2017, grazie agli incentivi fiscali". L'agenzia ricorda poi l'aumento della fiducia delle imprese, il miglioramento degli utili aziendali e il calo dei fallimenti, che hanno toccato il livello più basso dal 2009. tuttavia gli investimenti devono ancora fare molto per tornare ai livelli pre-crisi. Il rapporto cita anche la soluzione delle crisi di Mps e delle banche venete e il successo dell'aumento di capitale Unicredit. 

Inoltre il mercato del lavoro "sta facendo progressi. L'occupazione è tornata ai livelli del 2008 e la creazione di lavori è stata forte con circa 150mila nuovi posti nel primo semestre del'anno". Di converso, "il ritorno dell'inflazione, sebbene modesto, probabilmente intaccherà la crescita dei redditi reali e di conseguenza la domanda dei consumatori. Sul lato del commercio estero, le esportazioni non dovrebbero dare un significativo contributo alla crescita del Pil a causa "della scarsa crescita nella produttività del lavoro nonostante le riforme messe in campo negli scorsi anni".

Ma secondo la Banca d' Italia il debito pubblico italiano risale a settembre. Secondo quanto comunica la Banca d'Italia è stato pari a 2.283,7 miliardi, in aumento di 4,4 miliardi rispetto al mese precedente quando aveva registrato un ribasso di 21,3 miliardi. L'incremento, spiega Via Nazionale, ha riflesso il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche (16,5 miliardi), in parte compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro (per 11,3 miliardi) e dall'effetto degli scarti e dei premi all'emissione. Le entrate tributarie sono in calo ma nei nove mesi fanno segnare una crescita dell'1,6%

A settembre le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 28,2 miliardi (3,8 miliardi in meno rispetto a quelle rilevate nello stesso mese del 2016). E' quanto rileva la Banca d'Italia secondo cui, nei primi nove mesi del 2017, sono state pari a 306,8 miliardi, in aumento dell'1,6% rispetto al corrispondente periodo del 2016.

"Da ieri non siamo più il fanalino di coda in Europa. Dobbiamo essere più consapevoli che la sostanza del discorso non sono le cifre, ma è capire che il Paese s'è rimesso a crescere, anche se questa crescita non ha risanato le cicatrici della crisi. Non è la soluzione ma un'opportunità, dice alle classi dirigenti che offre una possibilità". Lo ha detto il premier, Paolo Gentiloni, nel suo intervento all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica.

Ci aspettiamo un calo deciso del debito in un prossimo futuro" grazie alla più alta crescita del Pil nominale. Lo ha detto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan in una intervista a Cnbc.

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