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I rapporti dell’Onu fotografano una realtà che impone una riflessione: in tutto il mondo più di una persona su 30 è considerata migrante, cioè vive al di fuori del paese in cui è nata. In totale sono 258 milioni: circa il 3,5% della popolazione mondiale, stimata in 7,6 miliardi di individui. E questa immensa folla di persone, obbligate a cambiare paese per cause che vanno dalle violenze in patria al variare delle condizioni climatiche, aumenta in misura di 14 milioni ogni anno.

Dopo il picco di immigrazione irregolare verso l’Europa tra il 2014 e il 2017, molti paesi dell’Europa occidentale hanno cominciato a restringere i diritti riservati ai richiedenti asilo. La Svezia ha dato un giro di vite già nel 2016. La Francia ha adottato provvedimenti restrittivi a inizio 2018. E settimana scorsa si è diffusa la notizia che la Danimarca starebbe valutando di relegare i richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta ma che non possono essere rimpatriati in un’isola remota.

Ma cosa succede quando un governo riduce il livello di protezione riservato ai richiedenti asilo, pur non essendo capace di aumentare i rimpatri verso i paesi di origine? La risposta è semplice: aumentano gli stranieri senza permesso di soggiorno presenti sul territorio. Ed è esattamente ciò che succederà in Italia nei prossimi due anni.

In breve. Tra giugno 2018 e dicembre 2020, il numero degli irregolari in Italia aumenterà di almeno 140.000 unità. Parte di questo aumento (circa 25.000 unità) è già accaduta nei mesi passati. Ma l’aumento maggiore verrà registrato tra oggi e la fine del 2020.

Nello “scenario base”, quello in cui l’Italia avrebbe mantenuto tutti e tre i livelli di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), gli irregolari in Italia sarebbero aumentati di circa 60.000 unità. Ma il decreto-legge dello scorso ottobre (da poco convertito in legge) potrebbe aggiungere al numero dei nuovi irregolari previsti dallo scenario base ulteriori 70.000 irregolari, più che raddoppiando i nuovi irregolari presenti in Italia. Ai ritmi attuali, i rimpatri dei migranti irregolari nei loro paesi di origine avranno un effetto solo marginale: per rimpatriarli tutti sarebbero necessari 90 anni, e solo a condizione che nel prossimo secolo non arrivi più nessun irregolare.

In totale, entro il 2020 il numero di migranti irregolari presenti in Italia potrebbe superare quota 670.000. Si tratta di un numero più che doppio rispetto ad appena cinque anni fa, quando i migranti irregolari stimati erano meno di 300.000. Sarebbe anche il record di sempre se si esclude il 2002, quando in Italia si stimavano presenti 750.000 irregolari.

Secondo il giornale il nostro Paese sta tornando ad essere considerato il campo profughi d’Europa. Non è solo l’impennata di sbarchi registrata nelle ultime settimane a farcelo dire. Ci sono diversi atteggiamenti all’interno del governo e in seno all’Unione europea che stanno mettendo a nudo la pericolosa inversione di rotta impressa dal Conte bis.
 rompere gli argini, dopo la batosta elettorale in Umbria, è stata la decisione del governo di inchinarsi a piedi di una Ong francese, la Sos Mediterranée, e di far attraccare la Ocean Viking, nave battente bandiera olandese, nel porto di Pozzallo per farvi sbarcare i 104 immigrati clandestini che ha a bordo. Una presa di posizione netta a favore delle organizzazioni non governative che incoraggia gli scafisti in un momento in cui continuano gli sbarchi non accennano a diminuire. Dall’inizio del mese, tanto per dare un’idea al lettore, si sono registrati 1.854 arrivi di immigrati contro i 1.007 di tutto ottobre 2018. E ancora: a settembre gli stranieri arrivati sulle nostre coste sono stati 2.498 contro i 947 arrivati nello stesso periodo dell’anno scorso.

l problema è che il governo giallorosso, secondo il quotidiano il giornale, non intende mettere un freno a questa nuova ondata di immigrati. Anzi, sembra seriamente intenzionato a riproporre quelle politiche buoniste messe in campo dai governi Letta, Renzi e Gentiloni e che hanno portato il Paese al collasso mentre gli ultrà dell’immigrazione si arricchivano con il business dell’accoglienza. Le linee guida illustrate nelle scorse ore dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, davanti alla commissione antimafia della Camera, sono di mettere mano, “nel giro di poco”, ai decreti Sicurezza voluti da Matteo Salvini quando sedeva al suo posto al Viminale. Già nei giorni scorsi, dal Partito democratico hanno fatto sapere di aver già pronti gli emendamenti necessari a smontare “pezzo per pezzo” i due decreti invisi alla sinistra. “Sui decreti sicurezza c’è stato un intervento del capo dello Stato – ha confermato la Lamorgese – quindi noi certamente in prima battuta opereremo quelle modifiche per renderli conformi alle osservazioni che erano venute dal Quirinale”. Una volta compiuto questo colpo di spugna i porti torneranno ad essere aperti a tutti gli effetti e le Ong non avranno più alcun impedimento a scaricarci tutti i disperati raccolti nel Mar Mediterraneo.

Anche a Bruxelles secondo il giornale l’esecutivo sta tenendo la stessa linea che porterà l’Italia ad essere considerata il campo profughi d’Europa. Secondo un’indiscrezione pubblicata dal quotidiano Die Welt dopo aver sentito fonti del Bundestag, il premier Giuseppe Conte avrebbe accettato un piano che prevede il rientro nel nostro Paese dei “dublinanti” presenti in Germania. Va detto che queste espulsioni forzate vanno avanti da sempre. Anzi, nei mesi scorsi era venuto anche alla luce che le autorità tedesche sono solite stordire con medicinali gli immigrati prima di imbarcarli in volo. Quando al Viminale sedeva Salvini, la cancelliera Angela Merkel non era mai riuscita a far sottoscrivere un accordo per un rientro sistematico dei dublinanti. Adesso, invece, si parla di due voli al mese dalla Germania verso l’Italia con a bordo un massimo di 25 migranti.

Già dopo il via libera alla Ocean Viking, la Alan Kurdi e la Open Arms hanno chiesto al nostro governo di poter avere un porto sicuro. Molto probabilmente vedremo gli effetti di queste scellerate decisioni la prossima primavera quando, complice le buone condizioni meteorologiche, gli sbarchi torneranno a farsi massicci. Entro allora i giallorossi avranno preparato la strada per una nuova ondata di arrivi che rimetterà in moto la macchina da soldi gestita dagli ultrà dell’accoglienza e dalle solite cooperative rosse.

Il capo politico del Movimento Cinque Stelle, in qualità di ministro degli Esteri nella giornata di mercoledì è apparso abbastanza chiaro: “Il memorandum con la Libia non può essere cancellato – ha affermato Di Maio durante il question time alla Camera – Secondo il quotidiano il giornale si creerebbe un vulnus politico. Una riduzione dell’assistenza italiana potrebbe tradursi in una sospensione delle attività della Guardia costiera libica con conseguenti maggiori partenze, tragedie in mare e peggioramento delle condizioni dei migranti”. Ma c’è un’apertura su possibili modifiche da apportare all’intesa con Tripoli: “Il governo – ha infatti proseguito Di Maio – intende lavorare per modificare in meglio i contenuti del memorandum con particolare attenzione ai centri ed alle condizioni dei migranti”. In poche parole, alla chiusura totale su ogni ipotesi di sospensione degli accordi, si è affiancata nelle ultime ore la disponibilità ad apporre modifiche sostanziali agli accordi con il governo di Fayez Al Sarraj.

E c’è chi parla di “conversione”, di un Di Maio illuminato in questo caso lungo la via di Tripoli: “Si è convertito – ha dichiarato, come si legge su Repubblica, la deputata Pd Lia Quartapelle –  È passato dall’indifferenza alla consapevolezza dei problemi”. Di fatto dunque, Luigi Di Maio è riuscito a placare gli animi molto accesi a sinistra, visto che parte del Pd e LeU soprattutto sono sempre stati fortemente contrari ad ogni ipotesi di rinnovo degli accordi. La promessa di una revisione del memorandum, ha in qualche modo fatto digerire ai deputati più restii l’oramai prossimo rinnovo automatico per altri due anni delle intese con la Libia.

L’Europa sembra essere il refugium peccatorum anche del governo Conte II. Solo che, rispetto ad altri esecutivi passati, da un’altra prospettiva. Se prima si usava, per giustificare ogni azione impopolare, il motto “ce lo chiede l’Europa”, adesso per dirimere ogni controversia interna alla maggioranza giallorossa si procede con “lo chiediamo all’Europa”. E sull’immigrazione questo modus operandi è oramai una costante durante i primi due mesi di vita del Conte II. Il nuovo scenario dove si appresta ad essere applicato, riguarda il memorandum con la Libia prossimo al rinnovo automatico.

Accordi quelli sottoscritti dal governo Gentiloni, sulla base soprattutto della linea dell’allora ministro degli interni Marco Minniti. E contro l’ex titolare del Viminale, all’interno dello stesso Pd già all’epoca in tanti avevano mostrato non pochi malumori. Ecco perché per la parte più a sinistra della coalizione era molto difficile accettare l’idea di un tacito rinnovo di quei patti stretti con Al Serraj. Per di più in giorni in cui dalla Libia sono emerse notizie sul caso Bija e sul nuovo codice delle Ong varato proprio dal governo di Tripoli.

Di Maio però, ha sempre rifiutato di dare un taglio netto a quegli accordi. Questo per due motivi: il primo è di ordine prettamente politico e riguarda l’esigenza del capo politico dei grillini di non mostrarsi così distante dalla sua posizione tenuta quando era alleato di Salvini. L’altro ha a che fare con il suo mandato di ministro degli Esteri: qualcuno alla Farnesina avrà spiegato a Di Maio che, sotto il profilo politico, ritirarsi da quegli accordi equivaleva ad allontanarsi dal governo di Al Sarraj, sostenuto da sempre dall’Italia anche con 300 militari ancora oggi presenti a Misurata.

Come scrive il giornale nella sua rubrica insider a qui il “compromesso“: si rinnovano gli accordi, ma si promette anche una loro revisione. Ma, nel particolare, cosa si andrà a rivedere? La questione qui non è solo politica, bensì anche tecnica e pratica . Di Maio mercoledì ha assicurato che il governo ha già aperto tavoli tecnici con l’Oim e l’Unchcr, segno che, seguendo le richieste di una parte della maggioranza, l’obiettivo è quello di uno svuotamento dei centri d’accoglienza libici. Un progetto ambizioso, volto a chiudere per sempre strutture colme all’inverosimile ed esposte anche ai combattimenti in corso a Tripoli. L’Italia però da sola non lo può fare.

Ed ecco quindi che a subentrare è la richiesta, ancora una volta, dell’aiuto da parte europea. Quello che Roma vuole chiedere a Bruxelles, continua il giornale si legge dai retroscena trapelati e ripresi da Repubblica, è la gestione di hotspot direttamente in Libia. Magari dirottando una parte dei fondi previsti per Frontex verso la costruzione e gestione di hotspot lungo le coste della Tripolitania. In tal modo, si creerebbero delle strutture più dignitose per i migranti, dove potrebbe essere possibile già lì registrare i richiedenti asilo ed organizzare ponti umanitari per permettere o il loro ingresso in Europa oppure il loro rientro in patria. Un progetto, di per sé, ambizioso ma dove non mancano le incognite. A partire dalla volontà stessa dell’Ue di collaborare. Lo si è visto già in occasione del vertice di Malta: a fronte della volontà espressa da parte della Germania di istituire meccanismi di redistribuzione automatica dei migranti, nei fatti poi non è cambiato nulla. Anzi, il vertice sopra menzionato è stato solo mera passerella politica per aiutare l’amico Giuseppe Conte, in difficoltà visto il numero crescente di sbarchi.

Se l’Europa è la stessa poi che, nel vertice dei ministri dell’interno del Lussemburgo, ha giudicato marginale i numeri delle rotte centrali del Mediterraneo, difficilmente da Bruxelles arriveranno parole di sostegno ad un simile progetto. Ed anche le rassicurazioni dello spagnolo Josep Borrell, prossimo a succedere a Federica Mogherini come alto rappresentante della politica estera dell’Ue e che ha dichiarato di essere pronto a riaprire il dossier libico, per adesso non appaiono così risolutive. C’è poi un’altra incognita, ossia la situazione sul campo. A parte il fatto che occorre capire se, sotto il profilo politico, il governo di Al Sarraj vorrà o meno inserire queste modifiche nel memorandum, il problema principale è che a Tripoli si continua a sparare. Per dare vita al sistema sopra descritto, occorre garantire condizioni di sicurezza che al momento non ci sono.

La proposta dunque in ballo, altro non è che un compromesso politico interno alla maggioranza al momento vuoto di contenuti pratici. Si sta provando a far digerire alla parte più a sinistra della coalizione il rinnovo delle intese con Tripoli e nulla più. Ed a gennaio, quando si parlerà di rifinanziamento delle missioni all’estero, sul capitolo che riguarderà la Libia l’attuale tregua interna alla maggioranza potrebbe già terminare.

Ai dubbi sul piano del governo e soprattutto sul possibile aiuto dell’Unione europea, si è poi aggiunta direttamente la smentita dell’Ue: “Questo piano non esiste”. La portavoce della Commissione europea, Natasha Bertaud, ha risposto in maniera molto netta all’ipotesi di un piano per gli hotspot in Libia controllati da Bruxelles con un messaggio molto chiaro: “Non c’è alcuna intenzione che questo piano esista in futuro”, anche perché la stessa portavoce ha voluto ribadire, sulla Libia, che “non ci sono le condizioni per considerarlo come un paese sicuro”. Ancora una volta l’Europa non ci darà una mano.

Dal Quirinale filtra l'indiscrezione per cui non sono possibili "formule politiche ulteriori". Insomma, niente Conte-ter. Figuriamoci un governo tecnico. Come nota Repubblica, la fine anticipata della legislatura farebbe slittare il voto sulla legge che taglia i parlamentari. In ogni caso, nessuna crisi è ammessa prima dell'approvazione della manovra, giudicata dal Capo dello Stato "una priorità assoluta". Una volta pubblicata la Legge di bilancio in manovra, allora, tutto può succedere. E il voto sarebbe inesorabile

«Sfiduciare Palazzo Chigi non è tra i poteri del presidente della Repubblica», spiegano dal Colle. Ma, se Conte 2 cade, «difficilmente» ci sarà un Conte 3, o un gabinetto istituzionale, o una qualche altra alchimia. Se davvero la coalizione giallorossa entrerà in crisi, bisognerà «tenere bene in chiaro» che il Quirinale non allungherà il brodo della legislatura e che si andrà verso elezioni anticipate nel 2020. C'è già una possibile data, fine marzo, un mese e mezzo dopo le cruciali regionali emiliane: il taglio dei parlamentari non sembra più un ostacolo. Dunque niente più esperimenti. Due «governi Frankenstein» possono bastare, un terzo sarebbe troppo.

La linea è di attesa degli eventi, con un occhio sulla Finanziaria. Mattarella, pur nella modalità zen , è appena appena infastidito da chi nelle ultime ore lo ha chiamato in causa come se potesse fare qualcosa. «Gli italiani - ha detto ad esempio Matteo Salvini - non meritano di essere ostaggio da una simile maggioranza, non è questo, così litigioso, l'esecutivo che il presidente aveva in mente». Giorgia Meloni ha addirittura sollecitato un intervento diretto: «Mattarella tenga conto delle elezioni in Umbria, lo scenario è cambiato». Richieste improvvide dal punto di vista della grammatica costituzionale, propaganda.

Intanto tra i parti che hanno perso e iniziata la resa dei conti interna che e solo questione solo di tempo: prima o dopo il voto in Emilia Romagna? Le scommesse sono iniziate. 

Salvini attacca: «Gli italiani non meritano di rimanere ostaggio di questa maggioranza che si scanna giorno dopo giorno». Ancora: «Le elezioni fan così paura? Sono esterrefatto dalla arroganza con cui Renzi, Zingaretti, Conte e Di Maio trattano gli italiani».

"Non voglio che questo governo cada. Voglio che mantenga gli impegni con gli italiani. E se non realizza quello che ha detto di voler realizzare, meglio andare a votare

È con queste parole che il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, traccia i possibili scenari futuri del governo giallorosso. Non escludendo una sua caduta, anche a breve.

Ospite di "Circo Massimo", su Radio Capital, il governatore del Lazio parte per forza di cose dalla sonora sconfitta alle Regionali umbre che mette a repentaglio l'ipotesi di un'alleanza strutturata con il Movimento 5 Stelle. "Abbiamo perso perché c'era l'accordo con i pentastellati ? Reagisco quando si batte su teoremi falsi", la piccata risposta di Zingaretti alle accuse di Matteo Renzi e altri. "È vero - ammette il leader dem - che il progetto ha perso, ma se non ci fosse stato sarebbe stato molto peggio", difendendo così la sua scelta di correre con Di Maio.

Ed è proprio al capo politico 5S - e alle altre forze della maggioranza - che Zingaretti si rivolge con un appello inequivocabile: "Non voglio che questo governo cada. Voglio che mantenga gli impegni con gli italiani. E se non realizza quello che ha detto di voler realizzare questo governo non ce la fa. Quindi meglio votare". Dunque, per la prima volta, il segretario dei democrat apre all'ipotesi elezioni anticipate

Quel 7.4% pesa. E per quanto i grillini cerchino di minimizzare, la crisi c'è. Luigi Di Maio, subito dopo la clamorosa sconfitta, ha cercato di rassicurare il Paese, ma ha messo le mani avanti: "ll patto civico per l'Umbria lo abbiamo sempre considerato un laboratorio, ma l'esperimento non ha funzionato. Il MoVimento nella sua storia non aveva mai provato una strada simile. E questa esperienza testimonia che potremo davvero rappresentare la terza via solo guardando oltre i due poli contrapposti". Insomma, è come se avesse detto "abbiamo perso perché ci siamo alleati col Pd".  

Nel Pd non c'è più Matteo Renzi ad agitare le acque. Ma sono rimasti renziani di ferro come Luca Lotti e Lorenzo Guerini che stanno organizzando una corrente, Base riformista, per scalare il partito. C'è il sindaco di Bergamo Giorgio Gori che sogna la segreteria nazionale. Il leader dem si difende, minacciando lo strappo con i Cinque stelle e la corsa al voto. Una mossa per blindare la poltrona e allontanare lo scenario di un nuovo congresso. Zingaretti si schiera al fianco del presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini in vista del voto a gennaio. Spera in una vittoria che scacci la crisi.

Ma rischia il boomerang: Bonaccini è un altro pretendente alla guida del Pd. E in caso di vittoria potrebbe invocare la testa proprio del segretario. A chiedere di rimettere in gioco la leadership del Pd anche Andrea Marcucci, capogruppo dem in Senato. L'ex renziano poi corregge il tiro e ammorbidisce i toni: «Basta con le liti infinite, chiediamo al Governo di fare il governo. Il voto in Umbria è andato male ma è un dato locale, la maggioranza ora pensi ad approvare una buona legge di bilancio». Il segretario tira dritto e prova ad annegare le difficoltà nella birra: «Domani sarò a Poggibonsi, nel cuore della provincia italiana, perché un gruppo di giovani mi hanno contattato con idee e proposte per cambiare questo Paese. Passeremo la sera insieme bevendo una birra perché il Pd sta dove c'è voglia di futuro, per farla crescere» dice a SkyTg24. Il capo del Pd difende la poltrona e l'intesa con i Cinque stelle: «Abbiamo deciso al 100% di governare per tre anni con questa alleanza. Sono d'accordo, ma devono smetterla di creare polemiche tutti i giorni, perché gli italiani non ne possono più».

Ma gli inviti a rimettere il mandato si moltiplicano. Andrea Orlando, numero due Pd, è netto: »Se facciamo un congresso serve un congresso vero», dice il vice segretario dem. Con candidature alternative? «Se ci saranno, sì». Anche l'ex presidente del partito Matteo Orfini bombarda il segretario: «Concentriamoci per il voto in Calabria ed Emilia, poi però si faccia il Congresso, perché non è nel mandato di Zingaretti l'accordo con i 5s. Quindi se si vuole rilanciare l'alleanza c'è l'obbligo di chiamare tutti gli elettori a pronunciarsi». Riappare l'ex sindaco di Napoli Antonio Bassolino: «Siamo di fronte a problemi di fondo, in Italia e in Europa.

Che altro deve succedere? Servirebbe ed è anzi indispensabile un congresso come da tempo non si tiene: un congresso vero, diverso dalle primarie per eleggere il segretario. Un congresso di riflessione su un mondo del tutto nuovo e sul nostro paese. Un congresso dunque sulla base di idee, di tesi, di documenti, ed aperto a tutte le persone interessate ad una proposta politica e sociale di cambiamento. È questa la condizione per rinnovare davvero anche il Pd e la sinistra, il loro modo di essere e di agire nella società e nelle istituzioni. Tocca a Zingaretti prendere l'iniziativa e la decisione, con intelligenza e con determinazione». Il fronte contro Zingaretti si allarga. E prepara il golpe a meno di un anno delle primarie.

Nicola Zingaretti, invece, chiede unità e vuole "un cambiamento di passo". Zingaretti si appella all'unità perché "si governa da alleati non da nemici". Il segretario del Pd sta facendo il tutto e per tutto pur di mantenersi l'allenza coi 5S e soprattutto per tenersi ben stretto la poltrona. Anche se si rende conto che i risultati delle ultime elezioni regionali sono davvero disastrosi. Non soltanto per la netta vittoria del centrodestra che ha staccato di ben venti punti la sinistra. Zingaretti si rende conto - è evidente - che il primo partito che governa il Paese ha tirato su soltanto un 7.4%, mentre il Pd un 22,3%. Dati catastrofici.  

Ma se questi sono i numeri, che aria tira nel M5S? Stando ad alcune indiscrezioni riportate dall'agenzia Agi, i malumori sono parecchi. "Dopo l'Umbria? Adesso basta. Bisogna cambiare la catena gestionale. Non si può decidere in pochi", dicono alcuni. I parlamentari, quindi, chiedono più coinvolgimento e si interrogano sulle strategie per il futuro del Paese, che, riferiscono alcuni, mancano. "Io andrei da sola, meglio perdere con dignità" e "senza alleanze", spiega ancora all'Agi una fonte M5S, perplessa sulla possibilità di allargare il fronte pentastellato ad altri componenti. "Sicuramente non si possono organizzare le campagne elettorali in soli 40 giorni, affidandosi all'improvvisazione. Bisogna tornare nelle piazze e sui territori", viene ancora riferito.

Con lo stesso mood parlano parlamentari e consiglieri regionali pentastellati emiliano-romagnoli dopo l'incontro con Giggino. Maria Edera Spadoni, vice presidente della Camera, ha detto chiaramente che l'incontro "di oggi con il capo politico del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio è stato un incontro molto positivo. Siamo tutti concordi nel presentarci da soli, senza fare alleanze con i partiti, in occasione delle prossime regionali in Emilia-Romagna. Le uniche alleanze che valuteremo di fare saranno quelle con le liste civiche". E le stesse parole vengono usate dalla deputata M5S Federica Dieni, uscendo da Palazzo Madama dopo l'incontro dei parlamentari calabresi con Luigi Di Maio: "È ancora tutto in divenire, ma l'orientamento è quello di andare da soli".

Insomma, non solo la batosta alle Regionali in Umbria con tanto di figuraccia. Ora i parlamentari si ribellano pure a Di Maio. La sindaca di Imola oggi si è dimessa parlando di snaturazione del M5S. Chi sarà il prossimo? Ma soprattutto, Gigino continuerà a dire che va tutto bene? Che la tenuta del governo non è in crisi? Intanto, per le Regionali in Emilia-Romagna inizia a profilarsi un'altra linea: sì a liste civiche no al Pd.

Intanto da Bruxelles il vicepresidente della Ue Valdis Dombrovskis dice che «sulla manovra italiana rimangono alcune preoccupazioni», legate alle possibili correzioni durante il dibattito alle Camere. Su fisco e contante le posizioni di Cinque Stelle, Pd e Italia viva divergono assai. Continueranno Renzi e gli altri a cercare visibilità? Si insisterà sull'idea del rimpasto o del cambio in corsa del premier? Come andrà a finire la resa dei conti tra i grillini?

Tutto ciò rende precaria la marcia dell'esecutivo. Il presidente della Repubblica, proprio per il suo ruolo, cerca sempre di assicurare stabilità al Paese ma, se i partiti non si daranno una regolata, sarà impossibile arrivare al 2023. Il Conte bis è nato con la prospettiva di durare tre anni, con un patto di legislatura. Però non si può solo litigare, l'Italia ha bisogno che vengano risolti i suoi tanti problemi. Quindi, assicurano dal Colle, nessun calcolo sulla composizione delle forze che nel 2022 dovranno eleggere il successore di Mattarella: o vi calmate o si vota. E questo forse sarà il collante migliore.

 

La Lega, secondo i dati definitivi del voto, ha ottenuto il 36,9% (il 14% in più delle precedenti regionali), Fratelli d'Italia il 10,4% (era al 6,2) e Forza Italia il 5,5 (era all'8,5). Nella coalizione Bianconi, il Pd si è attestato al 22,3 % (35,8 nella precedente consultazione) e il M5s al 7,41 (era al 14.6).

Donatella Tesei è, dunque, formalmente la nuova presidente della Regione Umbria. E' infatti terminato lo scrutinio nelle mille e 5 sezioni, con il ministero degli Interni che ha ufficializzato il risultato. Tesei ha ottenuto il 57,55% dei voti, Vincenzo Bianconi, candidato presidente per il patto civico Pd-M5s il 37,48%. Una vittoria quella del centrodestra, quindi, con 20,07 punti di vantaggio.  

Avvocato cassazionista, nata a Foligno il 17 giugno del 1958, Donatella Tesei, che si avvia ad assumere la carica di presidente della Regione Umbria, alla guida della coalizione di centrodestra, vive a Montefalco dove è stata sindaco per due mandati, dal 2009 (eletta con la lista civica di centrodestra "Gruppo Montefalco") al 2014 e dal 2014 al 2019, quando venne riconfermata con il 63% dei consensi. Nel marzo del 2018 è stata eletta al Senato della Repubblica nel collegio uninominale (sostenuta dal centro destra) e presiede la Commissione Difesa. E' inoltre membro del consiglio di amministrazione della Bonifica umbra, coordinatore regionale delle Città del Vino dell'Umbria, vice presidente nazionale dell'associazione Città per la fraternità e consigliere del Gal Valle Umbra e Sibillini. "Ho sempre vissuto in Umbria" è scritto sul suo sito.

"Dal liceo classico alla laurea in Giurisprudenza a Perugia - aggiunge -, dalle esperienze professionali come avvocato ai successivi incarichi professionali. Sotto i miei occhi ho visto la mia terra impoverirsi e una burocrazia asfissiante soffocare imprese e realtà commerciali. Mi considero una donna pragmatica, più attenta ai fatti che alle parole". Come candidata presidente della Regione è stata sostenuta da cinque liste: Lega Salvini Umbria, Giorgia Meloni per Tesei, Forza Italia Berlusconi per Tesei, Tesei presidente per l'Umbria Civica presidente.

"Gli umbri hanno dimostrato che gli italiani hanno voglia di votare", aveva sottolineato Salvini a Perugia commentando a caldo i dati delle regionali.   "Festeggio anche una grande affluenza - ha sottolineato ancora Salvini - perché di solito commentiamo sempre un calo". Il candidato del centro sinistra Vincenzo Bianconi ha telefonato alla senatrice Donatella Tesei  "per congratularsi" per la vittoria alle elezioni regionali in Umbria.  

Intanto botta e risposta sulle possibili conseguenze sul governo tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte dopo il trionfo del centrodestra. Il leader della Lega è andato all'attacco sottolineando la valenza nazionale di queste elezioni.  "E' un voto che ha anche una valenza nazionale - dice Salvini - Conte continua con la sua arrogante distruzione dell'Umbria, sbagliare è umano ma perseverare è diabolico...ogni giorno si apre un problema nuovo". L'esito delle elezioni  in Umbria è "un test da non trascurare affatto" - dice Conte - ma "noi siamo qui a governare con coraggio e determinazione, il nostro è un progetto riformatore per il Paese. Un test regionale non può incidere, se non avessimo coraggio e lungimiranza sarebbe meglio andare a casa tutti", afferma il presidente del consiglio a margine della seconda edizione di "Sindaci d'Italia", organizzata da Poste Italiane.

Alla luce del risultato elettorale, frena sull'alleanza col Pd il leader M5s, Luigi Di Maio, sostenendo, tuttavia, che il governo va avanti. "Quello in Umbria, ha detto, era un esperimento. Non ha funzionato. Tutta la teoria per cui si diceva che se ci fossimo alleati con un'altra forza politica saremmo stati un'alternativa non ha funzionato", ha affermato intervistato a Sky Tg24 parlando di "strada impraticabile" per il patto Pd-M5s. "Abbiamo bisogno che il governo sia migliorato e innovato", ha aggiunto Di Maio. "Sto lavorando affinché questo governo porti a casa il programma nei prossimi tre anni - ha rilevato -, e poi si faccia valutare dagli italiani. Il voto arriverà e sarà il momento in cui valutare se abbiamo fatto bene o male".

Intanto non solo i parlamentari: a schierarsi contro la posizione di Luigi Di Maio c'è anche Beppe Grillo. Come riportato da La Repubblica, il comico genovese avrebbe detto a gran voce: "Non gli consentirò di far saltare l'alleanza con il Pd". Fonti del M5S hanno però smentito: "Si tratta di una frase assolutamente inventata e frutto della fantasia di Repubblica". Pure Roberto Fico si è smarcato: "Guai a fermare la costruzione dell'alleanza con il Pd". Il presidente della Camera si è sfogato: "Dovevamo grillizzare il sistema, invece il sistema ha normalizzato noi".

Non mancano poi le molteplici anime dissidenti causate anche dalle mancate nomine di sottogoverno: la resa dei conti per Di Maio è vicina. Lui smentisce: "Non mi risulta". Ma in realtà ci sono diversi esponenti grillini sul piede di guerra: da Alessandro Di Battista a Gianluigi Paragone, passando per Barbara Lezzi e Danilo Toninelli. A questo si aggiunge che alcuni senatori starebbero lavorando a un documento per mettere Luigi a un bivio: "O fai il capo politico o il ministro".

Non è un mistero che durante la formazione del governo io fossi abbastanza perplesso". Luigi Di Maio prova così a mettere le mani avanti dopo l'umiliante sconfitta rimediata nelle elezioni Regionali in Umbria, in cui il Movimento 5 Stelle ha subito un drastico calo dei voti: "Tutte le analisi di voto dicono che la metà dei nostri elettori si è astenuta a causa della coalizione con il Pd

Il capo politico del M5S ha ribadito che "l'esperimento in Umbria non ha funzionato" e dunque si deve "guardare avanti". Ma da parte di Giuseppe Conte è arrivato un invito a riflettere sulle prossime mosse. Il presidente del Consiglio si è schierato a favore di nuove alleanze territoriali, ma l'ex vicepremier gli ha risposto: "Dopo uno tra i nostri minimi storici alle Regionali, direi che può considerarsi una esperienza chiusa". Nelle prossime ore ci sarà un incontro con gli eletti di Calabria ed Emilia-Romagna, e si è detto sicuro di una cosa: "Nessuno mi chiederà di allearci con il Pd dopo il dato umbro".  

Matteo Renzi, leader di Italia Viva che non era andato all'incontro conclusivo con gli altri componenti della maggioranza di governo , parla di "una sconfitta scritta figlia di un accordo sbagliato nei tempi e nei modi. Lo avevo detto, anche privatamente, a tutti i protagonisti. E non a caso Italia Viva è stata fuori dalla partita. In Umbria è stato un errore allearsi in fretta e furia, senza un'idea condivisa, tra Cinque Stelle e Pd. E non ho capito la 'genialata' di fare una foto di gruppo all'ultimo minuto portando il premier in campagna elettorale per le Regionali". Così Matteo Renzi a Bruno Vespa per il libro "Perché l'Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)".

La replica di Franceschini arriva via Twitter: "Non mi sembra particolarmente acuta l'idea che poiché anche presentandoci insieme abbiamo perso l'Umbria, è meglio andare divisi alle prossime regionali. L'onda di destra si ferma con il buon governo e con l'allargamento e l'apertura delle alleanze, non di certo ridividendoci".

Conte ha avvertito: "Quanto accaduto in Umbria non deve replicarsi necessariamente a livello nazionale. Decidi tu, ma pensaci un attimo prima di mandare tutto all'aria con il Pd. Commetteresti un errore storico". E ha rilanciato una possibile alleanza in Emilia-Romagna: "Possiamo vincere e cambierebbe tutto". La risposta di Di Maio sarebbe netta: "Io non posso passare per quello di sinistra. Perdo voti a favore della Meloni, lo capisci?". E rivela anche l'intenzione di spostarsi più a destra: "I flussi dicono

Cosi le Cinque stelle che sono a rischio di estinzione non solo a Perugia e Terni, ma anche in tante altre parti d'Italia. Ecco perché ieri il capo politico Luigi Di Maio è tornato alla carica elencando vari punti della manovra su cui l'M5s intende discutere. «Per noi la lotta all'evasione non è criminalizzare commercianti, artigiani e professionisti con pos, carte di credito e abolizione del regime forfettario», ha dichiarato il ministro degli Esteri su Facebook. 

Questo significa, da un lato, che i pentastellati non vogliono perdere contatto con il mondo delle pmi rendendo meno invasiva la lotta al contante e, dall'altro, che vorrebbero estendere la platea della flat tax. Mancano le risorse: il contrasto all'evasione cifra 3,3 miliardi e punta tutto sulla limitazione delle transazioni e sull'obbligo di utilizzo delle carte. L'introduzione di paletti molto stretti sulla flat tax al 15% per chi ha ricavi fino a 65mila euro nasce da analoghe esigenze di taglio alla spesa per cui, nella versione prevista dal documento programmatico di Bilancio, viene resa inaccessibile a coloro che detengono beni strumentali di valore superiore a 20mila euro e a chi eroga compensi a collaboratori e dipendenti superiori a 20mila euro. Anche in questo caso si parla di centinaia di milioni di euro

«Questo testo deve definire dove vanno i soldi per le famiglie che fanno i figli, quale sia lo strumento per erogare le risorse», ha aggiunto Di Maio. In pratica, il leader grillino ha lamentato pubblicamente la mancanza di un sussidio per i nuclei familiari numerosi che non sarebbero coperti dalla dotazione unica di 400 euro al mese per i genitori con redditi bassi. Allo stesso modo, M5s vorrebbe garantire continuità tanto al reddito di cittadinanza quanto a quota 100 (per non perdere la sfida populista con la Lega), quest'ultima destinata a esaurirsi nel 2021. Ma proprio quest'ultimo punto rischia di aprire un nuovo fronte con Italia viva.

Un altro riguarda le tasse, in generale. «Sono d'accordissimo con la sugar tax e la plastic tax, ma altri meccanismi vanno discussi nelle prossime settimane», ha precisato. La tassazione «etica» sta attirando molte antipatie a M5s e, dunque, all'occorrenza, Di Maio è disposto a venire meno a questi principi pur di non consegnare argomenti ai propri avversari (non ultimo quello di una perdita di potere d'acquisto indotta dalle tasse sui beni di largo consumo). I renziani, invece, puntano sullo stop all'incremento al 12,5% della cedolare secca sugli affitti a canone concordato.

Ieri, invece, il premier Giuseppe Conte ha ricordato i 110 milioni annui garantiti ai Comuni al Fondo di ristoro per il minor gettito di Imu e Tasi, finora erogati a intermittenza. Il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, invia ogni giorno segnali di fumo alle forze politiche ricordando loro che con 23,1 miliardi di clausole Iva da bloccare non ci sono possibilità di incrementare le voci di spesa perché le coperture sono già risicate. Anche una spesa di 300 milioni potrebbe far crollare questo castello di carte. E non è un caso che la Commissione europea ieri abbia fatto sapere di essere pronta a dare l'ok preliminare al Documento programmatico di Bilancio. Un modo come un altro per fermare l'assalto alla diligenza.

"In democrazia conta il voto, non ci sono spallate. Se quello che scrive il Financial Times fosse solo parzialmente vero in qualsiasi Paese ci sarebbero le dimissioni tre minuti dopo". Così il leader della Lega Matteo Salvini a Perugia, nella conferenza stampa sul voto in Umbria.

"Un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano al centro di un'indagine sulla corruzione finanziaria era alla base di un gruppo di investitori che assunse Giuseppe Conte -ora primo ministro italiano- per lavorare su un accordo perseguito poche settimane prima che assumesse la carica". 

"Se un giornale autorevole come il Financial Times ipotizza dubbi, ombre o conflitti di interesse, mi aspetto che il presidente del Consiglio corra in Parlamento a riferire. Se non ritenesse di farlo lui, già oggi stesso glielo chiederemo noi", aggiunge Salvini rispondendo alla domanda se il gruppo parlamentare della Lega chiederà formalmente al premier Conte di riferire sui fatti contestati dal Financial Times. E sottolinea: "Dovrebbe farlo senza che la Lega glielo chiedesse".

Scrive il Financial Times : "Il collegamento con Conte rivelato in documenti esaminati dal Financial Times probabilmente attirerà un ulteriore esame sull'attività finanziaria del Segretariato di Stato vaticano, la potente burocrazia centrale della Santa Sede, che è oggetto di un'indagine interna su transazioni finanziarie sospette". E ancora: "Conte era un accademico di Firenze poco conosciuto quando è stato assunto a maggio 2018 per fornire un parere legale a favore di Fiber 4.0, un gruppo di azionisti coinvolto in una lotta per il controllo di Retelit, una società italiana di telecomunicazioni lo scorso anno. L'investitore principale in Fiber 4.0 è stato il Athena Global Opportunities Fund, finanziato interamente per 200 milioni di dollari dal Segretariato Vaticano e gestito e di proprietà di Raffaele Mincione, un finanziere italiano".

scrive il giornale ricorda che "la fonte finale dei fondi di Mincione non è mai stata dichiarata nella battaglia degli azionisti per il controllo di Retelit ed era sconosciuta prima che la polizia vaticana questo mese facesse irruzione negli uffici del Segretariato per sequestrare documenti e computer a causa della preoccupazione per un affare di proprietà di lusso a Londra stretto con Athena". Oltre a ripercorrere le recenti vicende giudiziarie interne al Vaticano sulla vicenda, il quotidiano rileva che "Conte è balzato dall'essere un politico sconosciuto a guidare un governo populista italiano nel giugno 2018" e ripercorre le tappe della crisi d'agosto e del nuovo esecutivo da lui presieduto con Pd e M5S. Si ricorda, inoltre, che "ha già affrontato accuse di conflitto di interessi in relazione all'accordo Retelit, dopo aver emanato un decreto basato sul cosiddetto 'golden power' che favorito i suoi clienti di una settimana prima di diventare primo ministro. Ha negato ogni conflitto di interessi ma è verosimile che debba affrontare nuovi approfondimenti sui suoi legami con la transazione e il coinvolgimento del Vaticano"

La vittoria del centrodestra in Umbria è stata netta, incontestabile, nei numeri superiore alle aspettative della vigilia: Donatella Tesei ha vinto con il 57,55 per cento rispetto al 37,49 per cento racimolato dal candidato del patto tra M5S e centrosinistra Vincenzo Bianconi. E guardando al risultato delle singole liste, è chiara ed evidente anche l’affermazione della Lega di Matteo Salvini che arriva al 37 per cento, mentre per contro il suo ex alleato di governo Luigi Di Maio vede il simbolo delle Cinque Stelle precipitare al 7,41 per cento. Dalle urne, quindi, esce un verdetto che apre tanti interrogativi sul fronte politico nazionale, con le possibili ricadute sul governo e nei rapporti tra i partiti che lo sostengono. Ma vediamo in rapida sintesi cosa ha detto il voto in Umbria.

Matteo Salvini ha «vendicato» la traumatica fine del governo gialloverde. Alle Regionali umbre ha dedicato il massimo impegno, ha battuto città e paesi per tre settimane, riempiendo ovunque le piazze. Sapeva di giocarsi molto, soprattutto per cancellare i dubbi di chi gli imputava di essersi fatto sfilare la poltrona di ministro dell’Interno per una ingenuità. Ha imposto la sua candidata e a colpi di comizio, tweet, dirette Facebook l’ha portata al trionfo, espugnando per la prima volta una Regione rossa.

Botta e risposta tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte dopo il voto in Umbria che ha visto il trionfo del centrodestra. Il leader della Lega è andato all'attacco sottolineando la valenza nazionale del voto.  "E' un voto che ha anche una valenza nazionale - dice  Salvini - Conte continua con la sua arrogante distruzione dell'Umbria, sbagliare è umano ma perseverare è diabolico...ogni giorno si apre un problema nuovo". Il voto in Umbria è "un test da non trascurare affatto" - dice Conte - ma "noi siamo qui a governare con coraggio e determinazione, il nostro è un progetto riformatore per il Paese. Un test regionale non può incidere, se non avessimo coraggio e lungimiranza sarebbe meglio andare a casa tutti". Lo dice il premier Giuseppe Conte a margine della seconda edizione di "Sindaci d'Italia", organizzata da Poste Italiane.

La Lega, secondo i dati definitivi del voto, ha ottenuto il 36,9% (il 14% in più delle precedenti regionali), Fratelli d'Italia il 10,4% (era al 6,2) e Forza Italia il 5,5 (era all'8,5). Nella coalizione Bianconi, il Pd si è attestato al 22,3 % (35,8 nella precedente consultazione) e il M5s al 7,41 (era al 14.6).

"E' un voto che ha anche una valenza nazionale, Conte continua con la sua arrogante distruzione dell'Umbria, sbagliare è umano ma perseverare è diabolico...ogni giorno si apre un problema nuovo". Così il leader della Lega Matteo Salvini a Perugia, nella conferenza stampa sul voto in Umbria.  "Chi semina tradimento raccoglie tradimento, lascio a Di Maio, Conte e Zingaretti i loro dubbi, noi andiamo avanti".

Donatella Tesei è, dunque, formalmente la nuova presidente della Regione Umbria. E' infatti terminato lo scrutinio nelle mille e 5 sezioni, con il ministero degli Interni che ha ufficializzato il risultato. Tesei ha ottenuto il 57,55% dei voti, Vincenzo Bianconi, candidato presidente per il patto civico Pd-M5s il 37,48%. Una vittoria quella del centrodestra, quindi, con 20,07 punti di vantaggio.

"È un'impresa storica - ha detto la Tesei - è importantissima per questa regione che ha saputo dimostrare una grande forza e determinazione di credere, questa volta, in un progetto di cambiamento". E ha aggiunto: "dedico questa vittoria all'Umbria, ai cittadini che hanno saputo dimostrare di avere una dignità e di saperla difendere".

Avvocato cassazionista, nata a Foligno il 17 giugno del 1958, Donatella Tesei, che si avvia ad assumere la carica di presidente della Regione Umbria, alla guida della coalizione di centrodestra, vive a Montefalco dove è stata sindaco per due mandati, dal 2009 (eletta con la lista civica di centrodestra "Gruppo Montefalco") al 2014 e dal 2014 al 2019, quando venne riconfermata con il 63% dei consensi. Nel marzo del 2018 è stata eletta al Senato della Repubblica nel collegio uninominale (sostenuta dal centro destra) e presiede la Commissione Difesa. E' inoltre membro del consiglio di amministrazione della Bonifica umbra, coordinatore regionale delle Città del Vino dell'Umbria, vice presidente nazionale dell'associazione Città per la fraternità e consigliere del Gal Valle Umbra e Sibillini. "Ho sempre vissuto in Umbria" è scritto sul suo sito.

"Dal liceo classico alla laurea in Giurisprudenza a Perugia - aggiunge -, dalle esperienze professionali come avvocato ai successivi incarichi professionali. Sotto i miei occhi ho visto la mia terra impoverirsi e una burocrazia asfissiante soffocare imprese e realtà commerciali. Mi considero una donna pragmatica, più attenta ai fatti che alle parole". Come candidata presidente della Regione è stata sostenuta da cinque liste: Lega Salvini Umbria, Giorgia Meloni per Tesei, Forza Italia Berlusconi per Tesei, Tesei presidente per l'Umbria Civica presidente.

"Gli umbri hanno dimostrato che gli italiani hanno voglia di votare", ha sottolineato Salvini a Perugia commentando a caldo i dati delle regionali. Per il segretario della Lega la vittoria che si delinea "è evidente e clamorosa". "Festeggio anche una grande affluenza - ha sottolineato ancora Salvini - perché di solito commentiamo sempre un calo". Il candidato del centro sinistra Vincenzo Bianconi ha telefonato alla senatrice "per congratularsi" per la vittoria alle elezioni regionali in Umbria.


"Una sconfitta scritta figlia di un accordo sbagliato nei tempi e nei modi. Lo avevo detto, anche privatamente, a tutti i protagonisti. E non a caso Italia Viva è stata fuori dalla partita. In Umbria è stato un errore allearsi in fretta e furia, senza un'idea condivisa, tra Cinque Stelle e Pd. E non ho capito la 'genialata' di fare una foto di gruppo all'ultimo minuto portando il premier in campagna elettorale per le Regionali". Così Matteo Renzi a Bruno Vespa per il libro "Perché l'Italia diventò fascista e perché il fascismo non può tornare".

No comment di Conte che cita Modugno - "La conoscete la canzone di Modugno? Il sole, il cielo...", è la battuta con cui il premier Giuseppe Conte replica ai cronisti che gli chiedevano un commento sulle elezioni umbre. "Si sente in discussione", gli chiede una cronista e, subito, un altro cronista gli domanda: "Ci commenti almeno questo sole...". A quel punto Conte replica citando il brano "Meraviglioso", di Domenico Modugno.

"La sconfitta alla Regione Umbria dell'alleanza intorno a Vincenzo Bianconi è netta e conferma una tendenza negativa del centrosinistra consolidata in questi anni in molti grandi Comuni umbri che non si è riusciti a ribaltare. Il risultato intorno a Bianconi conferma, malgrado scissioni e disimpegni, il consenso delle forze che hanno dato vita all'alleanza". Lo dichiara in una nota il segretario Pd Nicola Zingaretti.

"Dalla formazione del primo esecutivo ci è stato subito chiaro che stare al Governo con un'altra forza politica - che sia la Lega o che sia il Pd - sacrifica il consenso del Movimento 5 Stelle. Ma noi non siamo nati per inseguire il consenso, bensì per portare a casa i risultati, come il carcere per gli evasori di questa settimana e il taglio dei parlamentari della settimana precedente", scrive in un post su facebook il M5S.

Altissima l'affluenza, al 64,4%, nove punti in più rispetto al 2015. Del resto, nel Giardino d'Italia ci hanno messo la faccia tutti i leader nazionali e, sul finale della campagna, anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, protagonista della foto di Narni con Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza. Una reunion che, evidentemente non ha pagato.

"Il primo voto vero ha dimostrato che gli italiani non apprezzano il tradimento. Qualcuno al governo deve ritenersi abusivo già questa notte", attacca Salvini bollando come un "omino" Conte per aver, a parere del leader della Lega, minimizzato l'importanza del voto in Umbria dicendo che non è un test per il governo. "Il centrodestra ha il diritto e il dovere di governare il Paese", gli fa eco Silvio Berlusconi mentre Giorgia Meloni incalza: "fossi in Conte rassegnerei le dimissioni più velocemente della luce. Se avessero un po' di dignità non arriverebbero a domattina".

La sconfitta rischia di pone di fatto una pietra tombale sulla l'alleanza M5S-Pd. Il governo non è in discussione, e ciò viene ribadito sia dai Dem sia dal Movimento. Ma sulle Regionali 2020 la sensazione è che Di Maio voglia tornare all'antico, a cominciare da Emilia Romagna e Calabria. Anche perché l'alleanza con il Pd non ha pagato né per la coalizione di governo né per il Movimento che ha preso meno della metà dei voti dei Dem. "Il patto civico per l'Umbria lo abbiamo sempre considerato un laboratorio, ma l'esperimento non ha funzionato. E questa esperienza testimonia che potremo davvero rappresentare la terza via solo guardando oltre i due poli contrapposti", si legge in un post del M5S su facebook che assicura, comunque, come al governo "si rispetteranno gli impegni".

Esce con le ossa rotte dal confronto elettorale umbro è il Movimento 5 Stelle e il suo capo politico. Il risultato finale è pesantissimo, con quel 7 per cento che vede i pentastellati finire dietro anche Fratelli d’Italia (impensabile fino a poche settimane fa). A caldo le analisi portano a ritenere un errore lì'alleanza, mascherata da accordo civico, con il Pd, ma approfondendo l’analisi non è difficile rintracciare altri motivi che portano alla clamorosa sconfitta, a partire dalle feroci divisioni interne sempre più evidenti.

Certo, anche il Partito democratico non ha proprio nulla da esultare. Ha sempre governato la Regione ed ora si vede ridotto al 22 per cento. Paga lo scandalo che ha portato alle elezioni e che ha visto coinvolta la presidente uscente. ma sicuramente deve riflettere sulla sostenibilità di una alleanza con il Movimento 5 Stelle che gli elettori, almeno quelli umbri, hanno dimostrato di non gradire.

Nel campo del centrodestra, detto della forte affermazione della Lega, ha motivo di stappare bottiglie di spuntante anche Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni va in doppia cifra e conquista il 10 per cento arrivando quasi a doppiare Forza Italia (ferma al 5,5 per cento).

 

 

 

Gli Stati Uniti hanno messo l’Italia nel mirino. E i nostri servizi segreti, forse mai come quest’anno, sono al centro di una delle più importanti indagini della storia repubblicana americana, quel sistema di inchieste e contro-inchieste racchiuso nella grande galassia del Russiagate e che vede a Roma uno dei suoi centri nevralgici. Tra università, incontri, professori misteriosi, viaggi di delegati americani a Roma e incontri ad alto livello delle intelligence Usa e italiane, a Roma si gioca una partita fondamentale del Russiagate. E l’audizione di Giuseppe Conte al Copasir è la prova che questo sistema di inchieste incide (e molto) anche sulla stessa capacità di resistenza del governo italiano.

Convoca i giornalisti a Palazzo Chigi il premier Giuseppe Conte, subito dopo l'audizione al Copasir durata due ore e mezza, per raccontare la sua verità sui due viaggi di Barr in Italia e sgombrare il campo dalle "ricostruzione fantasiose" apparse sui media, che "rischiano di gettare ombre sul nostro operato istituzionale, cosa che non possiamo permetterci". L'affaire Russiagate ha comunque fatto emergere alcune criticità nei servizi, che il presidente si propone di affrontare a breve.  

La prima richiesta secondo l Ansa di informazioni dagli Stati Uniti, nell'ambito dell'inchiesta "preliminare" ("se invece era un'inchiesta giudiziaria sarebbe scattato un altro binario, la cooperazione giudiziaria, la rogatoria", precisa Conte) che Barr e il procuratore speciale John Durham stanno conducendo sulle origini del Russiagate (in pratica sugli stessi investigatori Usa che hanno indagato sui legami tra Trump e la Russia) arriva a giugno, informa il premier. Per il tramite dell'ambasciata italiana a Washington, "non a me direttamente. Io non ho mai parlato con Barr", puntualizza. E l'attorney general, rileva, "è anche il responsabile dell'Fbi, che si occupa in particolare di controspionaggio ed agisce anche all'estero". Barr chiedeva uno "scambio preliminare di informazioni con la nostra intelligence" per "verificare l'operato di agenti americani" in Italia nel 2016. In particolare, l'oggetto di interesse era Joseph Mifsud, il docente maltese di stanza in quel periodo alla Link Campus University e che ha agganciato George Papadopoulos, consulente dell'allora candidato alle presidenziali Trump, per passargli la notizia che i russi avevano email hackerate ad Hillary Clinton. E' uno dei punti di partenza del rapporto Mueller che ha fatto emergere contatti tra lo staff di Trump ed i russi. Per il presidente Usa Mifsud era un agente provocatore che voleva incastrarlo dimostrando che si era avvalso dell'aiuto di Mosca per essere eletto  

L'interlocuzione con l'attorney general americano William Barr, che voleva avere notizie sull'operato di agenti dell'intelligence Usa in Italia nella primavera-estate del 2016, è avvenuta "in piena legalità e correttezza"; è risultata acclarata "l'estraneità della nostra intelligence" e con il presidente Donald Trump "non abbiamo mai parlato di questa vicenda": dice dunque il "falso" chi parla di collegamenti con "il suo tweet di sostegno nei miei confronti" ad agosto.

'Complotto' in cui settori dell'intelligence americana avrebbero coinvolto anche loro colleghi occidentali, in Inghilterra, in Australia e magari anche in Italia, vista la presenza di Mifsud a Roma. Ecco il motivo dei due viaggi italiani di Barr. Il primo a Ferragosto, quando ha incontrato il direttore del Dis, Gennaro Vecchione, "è servito - ricostruisce il premier - a definire il perimetro della collaborazione e chiarire le informazioni richieste. Poi c'è stato il secondo il 27 settembre, alla presenza anche dei direttori di Aise ed Aisi. Abbiamo chiarito, alla luce delle verifiche fatte, che la nostra intelligence è estranea a questa vicenda; estraneità che ci è stata riconosciuta dai nostri interlocutori che non avevano elementi di segno contrario". In sostanza, non risulta che agenti italiani hanno collaborato con colleghi americani per 'gestire' Mifsud e poi farlo sparire. E, inoltre, osserva, "se ci fossero state attività illecite che coinvolgevano nostri agenti avremmo avuto obbligo di segnalarlo all'autorità giudiziaria".

Quanto alle accuse di aver tenuto nascosto sia ai membri del Governo che al Copasir i contatti con Barr, Conte ricorda che "il premier ai sensi della legge ha l'alta direzione e responsabilità politica dell'intelligence; non la divide con nessun ministro o leader politico. Se avessi informato persone non legittimate a ricevere queste notizie avrei violato la legge. Ed il Copasir ha diritto e dovere di verificare e controllare, ma a posteriori". "Se tornassi indietro - prosegue - non potrei fare diversamente, perchè l'indagine di Barr è una tipica attività d'intelligence. Se ci fossimo rifiutati di sederci al tavolo con loro avremmo recato danno alla nostra intelligence e ci saremmo macchiati di una grave slealtà nei confronti di un alleato storico". Nelle prossime settimane il Copasir sentirà i direttori di Dis, Aise ed Aisi, cui verranno chieste ulteriori informazioni sulle visite di Barr in Italia.

Secondo il quotidiano il Giornale la questione per Washington è fondamentale. Lo hanno chiarito non solo le inchieste della giustizia statunitense, ma anche i viaggi “politici” tra le autorità dei due Stati. Donald Trump ha ricevuto a Washington sia Giuseppe Conte che Sergio Mattarella, con il presidente della Repubblica che si è trasformato suo malgrado in una pedina di un gioco dei servizi segreti che ha irritato molto gli uffici del Quirinale e lo stesso presidente. Così come è chiaro il motivo per cui il presidente americano abbia voluto inviare Mike Pompeo a Roma, potente segretario di Stato ma soprattutto ex direttore Cia, nel bel mezzo dello scandalo, quando in Italia iniziavano a uscire le prime informazioni sugli incontri tenuti nel nostro Paese tra le agenzie americane e italiane.

Tutti viaggi che hanno un solo scopo: Trump vuole certezze. E queste certezze significano che per la Casa Bianca è essenziale chiarire quali siano i rapporti tra i servizi segreti italiani e quella che Trump e il suo entourage ritengono sia stato un enorme complotto internazionale teso a screditare la sua candidatura e la sua presidenza favorendo, di fatto, Hillary Clinton. Un’ipotesi che da anni circola negli uffici della Casa Bianca e che vede nell’intelligence italiana un nodo cruciale dell’inchiesta, soprattutto per i dubbi che gravitano intorno agli esecutivi a guida Pd, in particolare di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

Scrive il Giornale : Trump vuole vederci chiaro e non sembra intenzionato a mollare. Il rapporto di William Barr può essere fondamentale per capire passato e presente (e forse futuro) dell ramo italiano del Russiagate. Ma può soprattutto essere un punto di svolta estremamente importante nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, visto che da tempo Washington ha messo nel mirino Roma come Paese sempre più importante all’interno del suo sistema di alleanze. Washington vuole certezze. Le vuole soprattutto Trump e la sua amministrazione, che considera Roma qualcosa di più un semplice partner e che teme pericolose “deviazioni” da parte dei governi italiani rispetto alla linea che invece l’attuale amministrazione vorrebbe seguisse. E non è un caso che il governo statunitense abbia chiesto informazioni all’Italia al pari di Australia, Regno Unito e Nuova Zelanda: Paesi di estrema rilevanza per l’America, visto che essi sono tutti inclusi all’interno dei quella che viene chiamata l’alleanza dei Cinque occhi, i Five Eyes.

Questo sistema secondo inside over è una delle più importanti, potenti e meno conosciute coalizioni del mondo, poiché è un accordo di condivisioni di informazioni e di intelligence che di fatto considera l’anglosfera come parte di un sistema unitario in cui c’è la massima capacità di condivisomi dei rapporti di intelligence. In questo club non c’è l’Italia. Ma l’impressione è che l’attenzione di Washington su Roma sia indice di una volontà di portare altri Paesi in un sistema di informazioni sempre più stretto e con meno libertà di manovra, a tal punto che il governo americano ha chiesto più volte a quello italiano il conto dei suoi servizi segreti. Tanto che c’è chi ritiene che lo stesso (ormai famoso) endorsement di Trump nei confronti di Conte sia stato in realtà non tanto un endorsement politico quanto legato proprio a quanto potesse rivelare il governo da lui presieduto sugli intrighi di Roma che coinvolgevano uomini contrari alla sua presidenza.

Trump secondo Lorenzo Vita del Inside over vuole che l’Italia sia qualcosa di più di un partner. E lo dimostra il fatto che sia uno dei Paesi su cui ormai da mesi si concentrano le attenzioni dei suoi strateghi. Lo conferma il Russiagate, che è il nodo cruciale dell’amministrazione repubblicana e che è la vera spada di Damocle che pende sulla testa di The Donald. Ma lo confermano anche diversi punti del programma americano nel Mediterraneo e in Europa e che vedono sempre l’Italia al centro delle attenzioni strategiche statunitensi.

È stata proprio l’Italia, continua il Giornale ad esempio, il Paese su cui si è scatenata l’ira del governo statunitense per ciò che riguarda i rapporti economici con la Cina quando il governo italiano ha firmato il memorandum sulla Nuova Via della Seta. Mentre gli Stati europei si sono legati a doppio filo con Pechino stringendo accordi economici di vastissima scala, l’Italia ha subito un vero e proprio assedio mediatico e politico, in cui Washington ha ovviamente fatto il possibile per chiedere a Conte e ai suoi ministri di evitare di abbracciare l’iniziativa cinese. Il governo statunitense ha chiesto a Roma garanzie soprattutto legate all’intelligence, con Huawei indiziata speciale di un possibile ingresso della Cina nei sistemi di telecomunicazioni italiane (e quindi europee a euro-atlantiche).

Ma non va dimenticato anche l’interesse Usa nei confronti dei rapporti dell’Italia con la Russia, che sono da sempre estremamente forti e sui cui i falchi americani hanno spesso avuto da ridire. Trump ha considerato per molto tempo il precedente esecutivo (quello composto da Lega e Cinque Stelle) come un possibile tramite politico e strategico tra il suo governo e la Russia, ma l’intelligence e il Pentagono hanno sempre avuto grossi timori nei confronti delle politiche romane. A tal punto che appena confermato Conte alla guida di Palazzo Chigi, il premier ha dovuto fare due cose: blindare la rete Tlc con il golden power e fermare un r cittadino russo sospettare di essere una spia all’aeroporto di Napoli. L’alleanza con Trump e con gli Usa costa: ma adesso sempre poche per l’Italia ci sia un passo in avanti. Un salto di qualità che potrebbe includere Roma nel sistema degli occhi. Non più dei 14, come è adesso, ma dei cinque. O forse, sottotraccia, dei sei.

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