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Un'alleanza di sei partiti di opposizione turchi ha presentato lunedì un programma politico comune, primo passo verso una possibile candidatura unitaria per destituire il presidente Recep Tayyip Erdogan alle prossime elezioni presidenziali.

I partiti di opposizione intendono unirsi attorno alla figura di un unico candidato alla presidenza, cercando un'opzione più forte nel tentativo di succedere a Erdogan, che guida il Paese dall'agosto 2014. Secondo "Hurriyet", la coalizione dovrebbe determinare il proprio candidato in una riunione che si terrà il 13 febbraio.

I partiti di opposizione hanno già mostrato alcune delle loro carte in vista delle elezioni presidenziali di metà anno, in cui cercano di disarcionare un Erdogan che non solo è capo di Stato dal 2014, ma che in precedenza è stato primo ministro dal 2003.

Nel 2018 Erdogan ha varato una riforma del sistema presidenziale con una serie di cambiamenti radicali - come l'abolizione della carica di primo ministro - che ha attirato critiche non solo a livello nazionale, ma anche da parte di potenze e organizzazioni internazionali.

I membri della coalizione di opposizione includono il principale partito rivale di Erdogan, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), e il nazionalista Partito Buono (IYI).

Nel suo programma politico, l'alleanza si impegna, in caso di vittoria, a ribaltare il sistema presidenzialista della Turchia per instaurare una democrazia parlamentare, rafforzare lo Stato di diritto e la libertà di stampa e limitare le funzioni del presidente.

Con queste modifiche, il capo di Stato turco cesserebbe di essere una figura politica e assumerebbe un ruolo più formale, obbligandolo a non appartenere ad alcun partito politico e imponendo un limite massimo di sette anni di mandato.

Sul fronte economico, l'alleanza si è impegnata a intensificare la lotta contro l'inflazione e a cercare di ridurla a una sola cifra percentuale (attualmente supera il 60%), sostenendo al contempo il ritorno all'indipendenza della Banca centrale turca.

Intanto il Presidente della Turchia ha detto che la Svezia non deve aspettarsi sostegno per l’adesione alla Nato dopo le proteste del fine settimana a Stoccolma da parte di un attivista anti-islamico e di gruppi filo-curdi. Recep Tayyip Erdogan ha criticato la protesta contro il Corano di Rasmus Paludan, dicendo che era un “insulto ai musulmani”. Ha anche attaccato le autorità svedesi per aver permesso che la manifestazione si svolgesse davanti all’ambasciata turca a Stoccolma. Erdogan ha detto che se la Svezia non mostrerà rispetto per la Turchia o i musulmani, allora “non vedranno alcun sostegno da parte nostra sulla questione della Nato”. Non bastavano i ricatti di Erdogan alla Svezia sui curdi. Ora ci si mette anche la vecchia questione della libertà di espressione. Paludan non è Charlie Hebdo, non ha un programma libertario e liberale di critica della religione nelle società occidentali. Si tratta di un populista e provocatore danese.

Lunedì il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu,, citato dalla tv pubblica Trt, ha dichiarato: "Non siamo contro l'allargamento della Nato, da parte finlandese ci sono stati sviluppi positivi per noi, non ci sono state provocazioni come in Svezia". Recentemente la Finlandia ha sbloccato, per la prima volta dal 2019, la vendita di armi verso la Turchia mentre le autorità turche continuano ad accusare la Svezia di non fare passi concreti sulle richieste di Ankara per approvare la candidatura nell'Alleanza atlantica, ovvero il distanziamento dal terrorismo e l'estradizione di alcuni sospetti militanti.

Cavusoglu ha dichiarato durante una conferenza stampa che la Turchia "non è contraria all'allargamento" dell'Alleanza, "né ha problemi con Svezia e Finlandia". "Non ci sono obiezioni fondamentali all'ingresso di questi due Paesi", ha detto, anche se ha insistito sul fatto che devono soddisfare i requisiti, nonostante "comprenda le loro preoccupazioni in materia di sicurezza".

In questo senso, ha chiarito che la Turchia ha messo sul tavolo una serie di "preoccupazioni" che "devono essere prese in considerazione" e ha confermato che le autorità turche stanno studiando la possibilità di trattare le richieste in modo indipendente, secondo le dichiarazioni del canale televisivo Haberturk.

"Se questo passo verrà compiuto, speriamo di poterli considerare in modo indipendente. Credo che sarebbe giusto dividere questi Paesi in più e meno problematici, ma il nostro obiettivo non è quello di separarli. La nostra posizione si basa su analisi oggettive di come vengono soddisfatti questi requisiti", ha dichiarato.

Domenica, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ammesso che potrebbe esserci una risposta diversa alle richieste dei due Paesi e ha indicato che, se necessario, la Turchia "potrebbe inviare un messaggio diverso alla Finlandia". Ha messo la Finlandia davanti alla Svezia nella corsa all'adesione alla NATO, ma ha avvertito Helsinki di "non commettere errori" a questo proposito.

Le tensioni sono aumentate nell'ultima settimana dopo una serie di proteste in Svezia per il rifiuto della Turchia di facilitare l'adesione alla NATO di Stoccolma, in quanto il Paese non soddisfa i requisiti concordati dalle parti al vertice NATO di giugno 2022 a Madrid.

La Turchia ricopre una posizione assolutamente strategica e di importanza centrale all’interno della Nato, in quanto si tratta di un Paese perfettamente a metà fra Occidente ed Oriente. Un portone che si colloca fra le due realtà, una cinghia di trasmissione dalla quale passano, peraltro, numerose questioni: non ultime, quella dei rifugiati siriani e quella degli jihadisti dell’Isis partiti come foreign fighter dall’Europa e pronti a farvi ritorno è dall’11 novembre 2019 che Recep Tayyip Erdogan ha avviato le procedure di rimpatrio.

Questa peculiarità geografica e geopolitica di Paese di mezzo fu compresa sin da subito dai membri fondatori dell’Alleanza Atlantica. La Turchia, la quale proveniva dalla rivoluzione laica di Mustafà Kemal, detto Ataturk, avviata al principio del XX secolo, avrebbe rappresentato non soltanto un’interessante sfida per l’Occidente – intento a trarla sotto la propria sfera di influenza -, ma anche una strategia di lungo periodo nella sfida “fredda” all’Unione sovietica. Difatti, Ankara (insieme ad Atene) fu inclusa nel primissimo allargamento dell’Organizzazione, effettuato il lontano 18 febbraio del 1952.

Negli ultimi decenni la politica estera turca è entrata in una nuova fase, in particolare dall’arrivo al potere dell'attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan. Lo Stato anatolico ha maturato nel tempo nuove ambizioni imperiali e si è inserito progressivamente in vari contesti geopolitici, facendo uso sia della diplomazia sia della forza militare. Questo nuovo espansionismo della Turchia si sta così concretizzando in Asia centrale, Medio Oriente (con il caso emblematico della Siria), Corno d'Africa, Maghreb e nei Balcani, scalzando in vari Paesi la presenza dell'Italia, ad esempio in Libia, Albania e Somalia. Le ambizioni di Ankara vanno inoltre a toccare molti altri aspetti, come il rapporto di cooperazione e competizione con la Russia, il ruolo della Turchia nella NATO e i rapporti con l'Unione Europea.

La Turchia è un importante membro della NATO ed è il baluardo sud-orientale dell'Alleanza dai tempi della Guerra Fredda, in chiave di contenimento della Russia. Tuttavia negli ultimi anni Turchia e Russia hanno vissuto una relazione ambivalente in vari contesti geopolitici: a volte si sono sfidate e a volte, invece, hanno cooperato. Per questo motivo, gli Stati Uniti e i loro alleati si sono chiesti se Ankara possa ancora essere considerata un alleato affidabile. In effetti, se analizziamo la questione più nel dettaglio, notiamo che recentemente la Turchia si sta muovendo in modo sempre più autonomo e per perseguire i suoi soli interessi. Basti pensare al controverso acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400 e alle varie fasi di scontro e cooperazione con Israele e anche con la Grecia.

Anche l’Italia deve fare i conti con l'espansione politico-militare turca. La Turchia, infatti, si è sempre più inserita in vari quadranti geopolitici in cui il nostro Paese è storicamente attivo: si va dal Corno d'Africa (Somalia, Eritrea ed Etiopia), ai Balcani (Albania, Kosovo e Bosnia Erzegovina), senza dimenticare il Nord Africa con la Libia. È proprio in questo territorio che Ankara ha mostrato la sua determinazione e la sua capacità di azione diplomatico-militare. Erdogan, infatti, ha efficacemente fornito supporto e aiuto militare a Fayez al Serraj in risposta alle mire espansionistiche del Generale Haftar (sostenuto, tra gli altri, dalla Russia), sostituendosi al ruolo che avrebbe potuto giocare proprio l'Italia.

Fonti varie agenzie

Qui, dal Binario 21, il 30 gennaio del 1944 partì il treno merci che condusse la tredicenne Liliana Segre al campo di sterminio di Auschwitz, insieme ad altre 604 persone, tra cui suo padre Alberto: ne fecero ritorno solo in 22. E' un viaggio nel tempo con i ricordi della senatrice che si avvale anche di materiali fotografici, stampa e video dell'epoca, per ricordare una delle vicende più nere delle pagine della storia dell'uomo e che non deve mai essere dimenticata. Il viaggio nella memoria di "Binario 21" vedrà anche la partecipazione di Paola Cortellesi e Pierfrancesco Favino e un'esclusiva esibizione del Coro del Teatro alla Scala ai binari della Stazione Centrale di Milano.

Al Quirinale si è svolta la commemorazione con Mattarella. "I principi che informano la nostra Costituzione repubblicana e la Carta dei Diritti Universali dell'Uomo sono la radicale negazione dell'universo che ha portato ad Auschwitz. Principi che oggi, purtroppo, vediamo minacciati nel mondo da sanguinose guerre di aggressione, da repressioni ottuse ed esecuzioni sommarie, dal riemergere in modo preoccupante - alimentato dall'uso distorto dei social - dell'antisemitismo, dell'intolleranza, del razzismo e del negazionismo, che del razzismo è la forma più subdola e insidiosa. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del giorno della Memoria.

"La comunicazione è la vera sfida per tutelare la cultura della memoria". Lo spiega Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma, in una intervista al Agi in occasione della celebrazione del Giorno della Memoria. La ricorrenza del 27 gennaio, quest'anno è segnata dal pensiero espresso dalla senatrice a vita Liliana Segre sulla possibilità che in futuro il racconto dell'Olocausto sia confinato a poche righe sui libri di storia.

"Rifletto molto in questo tempo sull'estrema velocità delle forme di comunicazione, sui cambiamenti che ci sono stati. Sul modo in cui dovremo cimentarci per assicurare la trasmissione della memoria. Perché gli strumenti di comunicazione e interpretazione di alcuni messaggi, soprattutto per le giovani generazioni, corrono su strisce che per quelli come noi sono distanti. Credo sia doveroso - spiega Dureghello - come abbiamo fatto in questi anni affidandoci all'arte, al cinema e al fumetto, trovare strumenti nuovi che siano di stimolo".

Il cacciatore di nazisti per antonomasia, il superstite dell'olocausto Simon Wiesenthal, scrisse: "Per quanto durante la guerra potessimo aver desiderato la morte dei nostri aguzzini, dopo la guerra avevamo, nella stessa misura, il bisogno di trovarli vivi: prima che potessero morire, essi dovevano incontrare la giusta punizione."

Queste parole, tratte dal libro di Wiesenthal "Giustizia, non vendetta" sono perfettamente consonanti con lo spirito - la tensione morale - che ha animato un altro cacciatore di nazisti, il procuratore generale militare Marco De Paolis, il magistrato che ha perseguito penalmente i responsabili di molte delle stragi consumate dalle truppe di Hitler in Italia.

Di questa infaticabile, certosina ricerca della verità su massacri orribili e sui loro autori, si legge un avvincente racconto nel libro che Marco De Paolis ha scritto con Annalisa Strada, e il cui titolo, "L'uomo che dava la caccia ai nazisti", implicitamente autorizza il richiamo a Wiesenthal. Ma, diversamente dall'ebreo austriaco che nell'immediato dopoguerra si impegnò a stanare e a portare davanti ai giudici molti criminali di guerra, tra i quali Adolf Eichmann, il procuratore De Paolis ha agito non sospinto da una dolorosissima esperienza personale, ma per una "scelta etica", come spiega egli stesso nell'introduzione del libro, edito da Piemme, per "senso del dovere di dare risposta a chi aveva subito la più grande delle ingiustizie", per "onorare le vittime delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale".

Il racconto, che si dipana efficacemente in prima persona e si rivolge al lettore con un 'tu' quasi a prenderlo per mano, parte da un antefatto decisivo: la scoperta, nel 1994 in un corridoio della Procura militare di Roma, a Palazzo Cesi, di quello che è passato alla storia come "l'armadio della vergogna". Conteneva centinaia di fascicoli sulle stragi, che l'allora procuratore generale militare Enrico Santacroce, "aveva destinato alla cancellazione dalla memoria", disponendo una giuridicamente inesistente "archiviazione provvisoria", che "di provvisorio non intendeva avere nulla".

La maggioranza di questi fascicoli, 214, arrivarono sulla scrivania di De Paolis, fresco di nomina a pubblico ministero militare di La Spezia, con competenza su un territorio vastissimo, dalla Liguria alla Toscana, dall'Emilia Romagna alle Marche, teatro di molte delle stragi naziste (anzi, "nazifasciste" come sottolinea De Paolis, benchè l'amnistia decisa alla fine della guerra abbia impedito di procedere contro gli italiani che si macchiarono di quel sangue collaborando con i tedeschi). Davanti a questa smisurata richiesta di giustizia, il procuratore confessa di essersi sentito "come uno che si trova da solo in mezzo a un campo di calcio su cui, in teoria, ci sarebbe da disputare una finale".

Sono state indagini difficilissime: a cominciare dall'accertamento dell'identità dei militari tedeschi, al reperimento negli archivi militari sparsi per tutta la Germania dei documenti sulla loro attività nell'esercito ("centinaia e centinaia di uomini dei quali ricostruivamo storia e carriera passo per passo"), alle complesse pratiche delle rogatorie internazionali, alla ricerca dei testimoni e delle prove. Con metodo e costanza, De Paolis è riuscito a portare alla sbarra i boia nazisti di San Cesario sul Panaro, Sant'Anna di Stazzema, Certosa di Farneta, Civitella, Cornia e San Pancrazio, Marzabotto, San Terenzo Vinca, Padule di Fucecchio, di Cefalonia, dei molti e poco noti eccidi perpetrati sull'Appennino tosco-emiliano, tra le province di Modena, Reggio Emilia e Arezzo.

A ciascuno di questi sanguinosi massacri è dedicato un capitolo, che racconta i fatti e i processi, conclusi quasi tutti con la condanna all'ergastolo degli imputati: un esito che comprova la solidità del lavoro investigativo condotto dal procuratore e dai suoi collaboratori. Ma al di là delle singole tragedie e delle loro vicende processuali, quello che impressiona di più nel è la descrizione della "accurata pianificazione" delle stragi, della strategia studiata dagli ufficiali nazisti per infliggere alla popolazione una "punizione esemplare", una "pratica di violenza e terrore" che nel gergo dei nazisti era chiamata "desertificazione".

Nel ricco programma di eventi gratuiti organizzati a Roma, dal titolo "Memoria genera Futuro", il 27 gennaio c'è una doppia proiezione cinematografica, alle 18 e alle 20, a Palazzo delle Esposizioni: la prima è "Jona che visse nella balena" di Roberto Faenza e la seconda è "La tregua" di Francesco Rosi, lettura cinematografica del romanzo di Primo Levi con John Turturro nei panni del romanziere, che racconta il lungo viaggio di ritorno da Auschwitz all'Italia.

Sempre a Roma alle 21 l'Auditorium Parco della Musica ospita "Lechaim", concerto per il Giorno della Memoria di Raiz e Auditorium Band, che affrontano musiche attinenti al tema della Shoah e delle discriminazioni, ma anche brani composti da artisti contemporanei ebrei.

Il Teatro Comunale di Caserta ospita il concerto dell'orchestra Jazz & Shoah, in programma alle 19.15. Il progetto, voluto dall'Istituto italiano di cultura Bruxelles e dal maestro Angelo Gregorio, è nato per raccontare la storia sconosciuta di 15 musicisti jazz del campo di concentramento di Terezin. L'orchestra Jazz & Shoah è formata da 6 maestri polistrumentisti - Angelo Gregorio al sassofono e canto; Julien Gillain al violino, pianoforte e canto; Thimote Lemaire al trombone; Gabriele Pagliano al contrabbasso; Cyranò Vatel alla chitarra e Lucas Vanderputten alla batteria - che danno voce alla storia dei Ghetto Swingers. Ogni brano alla fine è accompagnato da una serie di diapositive scelte dalla Fondation de la Mémoire Contemporaine de Bruxelles.

L'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna celebra la Giornata della Memoria proiettando il docufilm "Dove vi portano gli occhi: a colloquio con Edith Bruck", la scrittrice di origine ungherese sopravvissuta alla Shoah. Nel racconto si ripercorrono l'infanzia, l'adolescenza, la cattura e la prigionia ad Auschwitz, il ritorno dal lager e la difficile vita dopo la liberazione. Inaugurata per la Giornata della Memoria, la mostra "L'inferno nazista. I campi della morte di Belzec, Sobibor e Treblinka", è in programma a Roma alla Casina dei Vallati, sede espositiva della Fondazione Museo della Shoah.

Documenti, foto, filmati, interviste e ricostruzioni raccontano per la prima volta in modo completo la storia di questi tre campi di sterminio. Palazzo Bisaccioni di Jesi, in provincia di Ancona, ospita la mostra "William Congdon" con testi e disegni dell'artista americano che come ambulanziere fu tra i primi ad arrivare con le truppe alleate nel campo di sterminio di Bergen Belsen, lo stesso dove era morta Anna Frank con la sorella.

Nel Centro Culturale Candiani di Mestre alle 17 il professore Simon Levis Sullam dell'Università Ca' Foscari di Venezia dialoga con Chiara Becattini, autrice del libro La memoria dei campi. La Risiera di San Sabba, Fossoli, Natzweiler-Struthof, Drancy.

Fonti Agi / Ansa e varie agenzie

Secondo il Financial Times il via libera degli Stati Uniti e della Germania alla consegna degli Abrams e dei Leopard ha ravvivato la discussione tra i Paesi alleati sull'eventuale fornitura all'Ucraina di aerei da combattimento. Un'ipotesi, tuttavia, piena di ostacoli

Sul piano militare però l’invio di tank europei in Ucraina potrebbe risultare irrilevante o quasi per i numeri limitati, i tempi necessari a renderli operativi e i limiti di addestramento e logistica delle forze di Kiev.

 Occorrerà addestrare anche il personale logistico e curare le manutenzioni mentre ricambi, proiettili da 120 mm e apparati del carro non sono compatibili con quelli impiegati dai carri utilizzati finora dall’Esercito Ucraino, di tipo russo/sovietico.

Peraltro inserire nei ranghi e rendere operativi mezzi simili richiede anni: quindi pensare che reclute ucraine (Kiev sta attuando un ennesimo arruolamento di massa per sopperire alle perdite subite negli ultimi mesi soprattutto sul fronte del Donbass) possano impiegare efficacemente sul campo di battaglia è un’illusione a meno che non si intendano impiegare in battaglia contractors britannici come equipaggi e per la manutenzione.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato che il trasferimento di questi mezzi militari non vuole essere “una minaccia contro la Russia” ma un modo per “aiutare l’Ucraina a difendere la sua sovranità”.

All’annuncio degli Usa sugli Abrams e a quello dei Leopard dalla Germania, è arrivata  immediata la reazione di Mosca: le forze armate russe distruggeranno i carri armati M1 Abrams fabbricati negli Stati Uniti e altre attrezzature militari della Nato se verranno forniti all’Ucraina, ha detto l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Anatoly Antonov. “Durante tutta la crisi ucraina – ha affermato – l’amministrazione ha utilizzato ripetutamente la tecnica di pubblicare informazioni sui media alla vigilia di consegne significative di armi e attrezzature al regime di Kiev. Un’analisi dell’intera sequenza delle azioni di Washington mostra che gli americani stanno costantemente aumentando il livello dell’assistenza militare al loro governo fantoccio”.

La Russia intanto ha preparato un piccolo numero di carri armati T-14 Armata per il primo dispiegamento operativo in Ucraina. I tank non soddisfano però gli standard necessari per poter essere considerati operativi. A scriverne è l’intelligence britannica nell’ultimo rapporto sulla situazione in Ucraina. “Negli ultimi mesi - precisa – le forze russe schierate erano riluttanti ad accettare la prima tranche di T-14 loro assegnata perché i veicoli erano in pessime condizioni. Non è chiaro esattamente quali aspetti dei mezzi abbiano provocato questa reazione, ma negli ultimi tre anni funzionari russi hanno pubblicamente descritto problemi con il motore del T-14 e i sistemi di imaging termico”. “Nel 2021 – prosegue il rapporto – il ministro della Difesa Sergei Shoigu ha descritto la produzione prevista per il 2022 solo come un lotto “sperimentale-industriale”. Pertanto, è improbabile che qualsiasi carro armato T-14 schierato abbia soddisfatto i consueti standard necessari perché le nuove attrezzature possano essere considerate "operative".

L’addestramento degli ucraini all’impiego dei carri armati occidentali prenderà il via nelle prossime settimane. John Kirby, portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha dichiarato che la decisione è stato uno sforzo sia diplomatico che militare che era “in preparazione da diverse settimane”. Kirby ha dichiarato alla Cnn: “C’è stata molta diplomazia nell’annuncio di oggi. La decisione che avete visto oggi, sia da parte della Germania che degli Stati Uniti, è arrivata attraverso molte, molte discussioni con i tedeschi e con i nostri alleati per diverse settimane”.

Dopo il via libera degli Stati Uniti e della Germania all’invio di carri armati a Kiev, il dibattito sul sostegno militare all’Ucraina da parte degli Stati alleati sale di livello: ora in gioco c’è l’eventuale fornitura di aerei da combattimento. E’ l’analisi del Financial Times che pone comunque l’accento sugli  “enormi ostacoli” legati soprattutto alla vocazione all'attacco dei jet americani e alla difficoltà dunque a mantenere la linea ‘difensiva’ sugli aiuti al paese di Zelensky.

Ma tra gli alleati, sostiene il quotidiano britannico, c’è chi è pronto a dare a Kiev tutte le armi necessarie per liberare il territorio invaso dai russi.  “Ci sono molte discussioni sul trasferimento di F-16 a Paesi terzi", racconta al Ft un alto dirigente di Lockheed Martin, il più grande appaltatore della difesa degli Stati Uniti e produttore del jet da combattimento.

Teoricamente gli Alleati potrebbero proporre di inviare gli aerei da combattimento direttamente a Kiev. Oppure potrebbero inviare moderni jet occidentali (come l'F-16) negli ex Stati del Patto di Varsavia (da sostituire agli aerei militari dell'epoca sovietica) per poi dirigersi in Ucraina. Una terza possibilità: finanziare l'acquisto di jet in entrambi gli scenari. Tutte ipotesi ma al momento una sola certezza: gli Stati Uniti hanno respinto l’idea.

Nonostante questo c’è chi spera in un’inversione di rotta da parte di Washington proprio come è avvenuto per i carri Armati M1 Abrams: ne saranno consegnati  (al momento) 31 in coordinamento con la Germania che manderà i Leopard.  

Carri armati e jet, terra e cielo: due vocazioni diverse in guerra e anche due “livelli tecnici distinti” per i militari a bordo. A livello logistico “a differenza di un soldato che guida un carro armato pieno di missili non si può scambiare un pilota Nato con uno ucraino sorvolando il confine polacco a 2mila chilometri orari”, è il ragionamento del Ft.

Il direttore di Analisi Difesa, Gianandrea Gaiani, spiega all'Agi che il dibattito sui tank a Kiev ha una valenza più politica che concreta. E sarà difficile per i carristi ucraini imparare a utilizzarli in tempo

Non saranno assolutamente sufficienti i carri armati che l'Occidente fornirà a Kiev. Inoltre, serviranno "moltissimi mesi" per addestrare gli ucraini a utilizzarli. Motivo per il quale "il tema dei carri armati, che è quello più seguito dai media occidentali, ha più una valenza politica che militare concreta". Lo afferma all'AGI Gianandrea Gaiani, direttore della rivista online Analisi Difesa, commentando la decisione della Germania di inviare all'Ucraina 14 Leopard 2.

"Il Leopard 2 - spiega Gaiani - fa parte dell'ultima generazione di carri armati sviluppati in Europa. Sono stati progettati durante le fasi finali della Guerra Fredda, alla fine degli anni 70, e sviluppati negli anni successivi".

"Finita l'epoca di quel confronto, i mezzi corazzati sono stati via via dimenticati, hanno assunto un ruolo sempre meno rilevante negli eserciti occidentali. Non sono quindi stati sviluppati nuovi carri armati, ma sono stati aggiornati quelli che erano in servizio, come appunto i Leopard 2, che oggi sono arrivati alla versione A7 Plus, una versione molto avanzata di un carro datato ma con il meglio della tecnologia europea in termini di mezzi corazzati", precisa l'esperto.

"Il motivo per il quale il Leopard 2 viene così richiesto da Kiev - aggiunge - è legato al fatto che la gran parte degli eserciti europei ha acquisito una parte di questi carri, che alla fine della Guerra Fredda la Germania aveva in quantità superiori alle sue necessità e che quindi ha potuto cedere a tantissimi Paesi alleati, non soltanto in Europa". Questi mezzi sono però "così sofisticati adesso che occorre chiedersi come possono essere gestiti da personale militare ucraino, che si presume debba essere addestrato in poche settimane per il loro utilizzo".Il nome in codice dei carri armati tedeschi evoca le sconfitte sovietiche durante la seconda guerra mondiale. Il timore è che da Mosca partano i T14, che però non sono mai stati visti in azione

KF 51 Panther è un nome che tra le fila dell'esercito russo significa qualcosa di catastrofico. Non perché il Leopard 2A7 Plus sia già entrato in azione sul territorio ucraino, ma perché quella sigla, di un carro in fase di realizzazione, evoca storie e leggende della seconda guerra mondiale. Quando i tedeschi misero in campo sul fronte sovietico i loro Panther e sembrò che le sorti del conflitto dovesse virare a favore di Berlino. E pare che il nome del futuro carro tedesco sia stato scelto proprio per esercitare anche una pressione psicologica. Per ora, a tormentare i sonni di generali e colonnelli russi c'è il Leopard. L'ultima versione del più potente e veloce cingolato è stata fornita all'esercito del Qatar.

Come sottolinea Gaiani  al Agi "i Paesi occidentali hanno fatto del sostegno militare all'Ucraina non solo una bandiera comune, ma anche uno strumento di disputa interna. Basti vedere l'aggressività con cui la Polonia sprona la Germania a fornire sempre più armi, ma anche il dibattito fra americani e europei, che è un po' più sottotraccia, e le critiche tra paesi europei, in particolare le critiche dei piccoli Stati baltici verso i grandi Paesi perché non hanno fornito abbastanza armi o munizioni. Quandi è un dibattito politico che vede anche delle sfide, delle diatribe, all'interno della Nato e dell'Ue".

Insomma, sottolinea Gaiani, "io penso che in realtà le difficoltà di addestramento e quelle logistiche" questi carri armati "non diventeranno certo decisivi" in questo conflitto. "Fra l'altro - continua Gaiani - quante munizioni potremo fornie per questi mezzi? E' chiaro che se dobbiamo alimentare noi lo sforzo militare ucraino nel tempo o convertiamo la nostra industria - ma questo significa miliardi di investimenti - oppure ci troveremo con la coperta molto corta".

Piuttosto, osserva infine il direttore di Analisi Difesa, "mi pare che ci occupiamo poco di un altro tema, ovvero che i russi hanno ripreso l'iniziativa. Stanno avanzando lentamente, ma progressivamente, nel Donbass, stanno scardinando le difese ucraine sull'asse Siversk a Bakhmut e stanno avanzando a Zaporizhzhia. Lo dico anche se è difficile capire se i russi hanno le capacità oggi di condurre un'offensiva che possa addirittura portare a circondare una buona parte dell'esercito ucraino a est del fiume Dnipro. Però oggi la notizia è che i russi hanno ripreso l'iniziativa e hanno potuto farlo dopo le ritirate molto disordinate da Kharkiv e da Kherson. Ora hanno accorciato il fronte e ridotto il peso della loro inferiorità numerica facendo affluire volontari e riservisti, che stanno addestrando anche per future operazioni".

Fonti Agi e varie agenzie

 

 

 

"È urgente che l'Unione Europea sviluppi una nuova visione nei confronti" dei Balcani occidentali e "metta l'allargamento" alla Regione "tra le sue priorità". Lo ha detto il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo video-intervento in apertura della conferenza "L'Italia e i Balcani Occidentali: crescita e integrazione", iniziativa della Farnesina e del ministro degli Esteri Antonio Tajani, in corso a Trieste.

"Portare più Italia nei Balcani". E' "l'obiettivo di questo Governo". E la Conferenza sui Balcani in corso a Trieste è un tassello di questo percorso. Lo ha detto il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in un video intervento. "E' quello che ci chiedono tutti gli amici della regione, l'ho constatato personalmente in occasione del vertice a Tirana. Siamo protagonisti nella regione ma dobbiamo rinnovare questa presenza e investire nei settori strategici", ha aggiunto Meloni.


"I Balcani sono stati al centro di diverse strategie comunitarie, si sono sovrapposte diverse iniziative non di rado in contrasto tra di loro, e questo ha fatto sì che venissero dilatati i margini della competizione piuttosto che quelli della collaborazione tra gli attori europei. Questo è un tema che non dobbiamo sottacere, e che dobbiamo affrontare con forza con un surplus della diplomazia, consapevoli che il nuovo protagonismo italiano nei Balcani occidentali risponde non solo ad un mero interesse nazionale ma anche ad un interesse europeo". Lo ha detto la presidente della Commissione Esteri del Senato Stefania Craxi intervenendo alla Conferenza sui Balcani a Trieste. "L'Italia, Paese fondatore dell'Ue e che in quanto tale intende operare con un approccio condiviso, lavora non solo per sostenere la piena integrazione comunitaria nell'area, ma anche per favorire il dialogo intraregionale tra i diversi attori", per la "completa" stabilità della regione, ha aggiunto.

Sul dossier Serbia-Kosovo "c'è una proposta" europea "di normalizzazione sul tavolo". Il presidente serbo "Vucic ha fatto un importante discorso alla nazione ieri, e noi ci aspettiamo che tutte le parti siano responsabili e si arrivi a questa normalizzazione, che darebbe nuova stabilità alla regione e metterebbe le basi per una nuova prosperità economica", ha detto Gori. l'ambasciatore ha ricordato che l'Italia, insieme con Francia, Germania, Ue e Stati Uniti sta cercando di facilitare il dialogo tra Belgrado e Pristina, tanto che "la settimana scorsa c'è stata una missione importante a cui ha partecipato anche il consigliere diplomatico della premier Meloni, l'ambasciatore Talò". C'è poi il piano parallelo del percorso di "allargamento", che "purtroppo negli ultimi anni si è rallentato perché non è stato considerato da alcuni paesi europei una priorità". Mentre invece "l'Ucraina ha restituito priorità a questo strumento, e l'Italia è tra i paesi più convinti di accelerare in maniera seria il processo di allargamento ai Paesi del Balcani occidentali", ha sottolineato l'ambasciatore.

C'è tanto da fare" e "abbiamo bisogno di più Italia nei Balcani occidentali", come "Paese fondatore e grande Stato membro dell'Ue". Lo ha detto il commissario Ue all'allargamento, Oliver Varhelyi alla Conferenza sui Balcani in corso a Trieste. "Le nostre aspettative sono più alte. Vogliamo che l'Italia riesca a promuoversi in modo più forte nei Balcani occidentali e nell'Ue", ha aggiunto spiegando che "Trieste non è solo la porta per l'Europa orientale ma anche per quella occidentale".

Questo e il Videomessaggio del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla conferenza “L’Italia e i Balcani occidentali: crescita e integrazione” 

Ringrazio e saluto il ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha promosso questa importante iniziativa dedicata a una regione come i Balcani occidentali che è di rilievo strategico per gli interessi nazionali italiani. In quanto Nazione vicina, l’Italia conosce molto bene l'importanza nevralgica che quest'area riveste per il futuro dell'Europa intera. Sappiamo per esperienza che tutto quello che accade al di là dell'Adriatico ha un riflesso immediato su di noi. Non poteva, quindi, esserci luogo più adatto per questa conferenza. Trieste e il Friuli-Venezia Giulia sono intimamente legati e connessi al mondo balcanico da profonde relazioni economiche e culturali. Trieste, allo stesso tempo “la più italiana” è “la più mitteleuropea” tra le città italiane, rappresenta un ponte naturale e straordinario tra l'identità italiana e latina, con quella dei popoli slavi e germanici a noi più vicini.

Il tessuto imprenditoriale di questo territorio rappresenta inoltre un esempio vincente della capacità italiana di affermarsi nei mercati internazionali grazie al suo talento e alla sua creatività. Le attuali dinamiche geopolitiche rendono questa conferenza quanto mai necessaria. La guerra di aggressione della Federazione russa all'Ucraina, siamo arrivati oggi all'undicesimo mese, ci pone davanti a scelte inevitabilmente strategiche. L'Europa ha una grande responsabilità verso i Balcani e deve impegnarsi per riaffermare il senso di appartenenza di questa regione al nostro mondo e ai nostri valori. È esattamente questo il messaggio che ho portato il 6 dicembre scorso al Vertice dei capi di Stato di governo dell'Unione europea e dei Balcani occidentali in Albania. È stato importante ribadire proprio a Tirana l'impegno dell'Unione Europea a sostegno della regione con misure concrete. Penso ad esempio al pacchetto da un miliardo di euro a supporto del settore energetico per mitigare gli effetti della crescita dei prezzi e assicurare un aiuto concreto a famiglie e imprese.

Non possiamo fermarci però solo alle misure economiche. È urgente che l'Unione Europea sviluppi una nuova visione nei confronti di questa Regione e metta l'allargamento ai Balcani occidentali tra le sue priorità. Noi non possiamo permettere che questo quadrante strategico per il nostro continente resti ancora a lungo fuori dalla casa comune europea. Ed è la ragione per la quale l'Italia continuerà a battersi in prima linea affinché il processo di integrazione europea dei Balcani occidentali possa proseguire con ancor più slancio e determinazione.  Per noi si tratta anche di un tema di rilievo assoluto che riguarda la nostra sicurezza nazionale e che per questo, anche per questo, non possiamo trascurare.

L’obiettivo di questo Governo è portare “più Italia nei Balcani”. Del resto, è quello che ci chiedono tutti gli amici della regione che ho constatato personalmente negli incontri al Vertice che ho avuto a Tirana. Le nostre aziende sono già protagoniste nella regione, ma dobbiamo rinnovare questa presenza e investire nei settori strategici.

Penso non solo alle infrastrutture, alle reti energetiche, ma anche allo sviluppo delle piccole e medie imprese per le quali il modello italiano è in grado di offrire un'esperienza assolutamente all'avanguardia. Allo stesso tempo dobbiamo sfruttare appieno le opportunità offerte dagli Stati di questa regione, colmare i consistenti margini di crescita che esistono per le nostre imprese in quei mercati molto importanti. Le imprese già si muovono, ma sono soprattutto le Istituzioni italiane che devono fare di più. Non possiamo essere alle spalle di Nazioni che hanno un'esperienza minore della nostra in questa regione. Ci siamo per questo già mossi e vedo quanto la Farnesina, guidata dal ministro Tajani, sia sempre più attiva sia sul fronte dei rapporti politici che su quello dei rapporti economici. Insomma, il Governo c'è ed è pronto a fare la sua parte per rafforzare la presenza delle aziende italiane nei Balcani.

La conferenza di oggi offre ovviamente l'occasione per discutere delle modalità concrete per rilanciare l'azione dell'Italia in questa regione e per mettere a sistema le opportunità significative che i Balcani sono in grado di offrire per le nostre aziende. Sono fermamente convinta della complementarietà tra il nostro sistema economico nazionale e quello dei paesi dei Balcani occidentali e sono convinta della possibilità di sviluppare forme vincenti di cooperazione industriale e commerciale tra le due sponde dell'Adriatico. La sicurezza e la crescita di tutti i popoli dei Balcani occidentali sono fondamentali per l'interesse nazionale dell'Italia. Per la nostra Nazione non si tratta di puntare su un partner e poi su un altro, per successivamente ignorare tutti. Non è questo quello che ci viene chiesto e non è questo quello che dobbiamo fare. Siamo stati sempre solidali con ciascuno dei nostri vicini nei momenti di difficoltà e siamo al fianco di tutti nel lavoro per una crescita condivisa nella sicurezza. Tutto questo non può che avvenire all'interno di un contesto europeo. Per questo ci battiamo per un'integrazione regionale nell'ambito di un processo di adesione all'Unione europea di tutti gli Stati della Regione e crediamo che sostenere la stabilizzazione e la piena integrazione europea significhi lavorare per una cooperazione nella lotta alla corruzione, nel contrasto dei traffici illegali, nella gestione e nel contenimento dei flussi migratori irregolari, nella prevenzione e nel contrasto del radicalismo in ogni sua forma.

Sono tante le sfide che abbiamo davanti per rafforzare il legame tra l'Italia e i Balcani occidentali. C'è un grande lavoro da fare e sono convinta che questa conferenza possa essere un altro importante tassello di questo percorso che deve vedere Istituzioni e mondo imprenditoriale camminare insieme, uniti.

L'incontro a Trieste "deve segnare un punto di svolta della politica estera italiana nell'area dei Balcani" per permettere al nostro paese "di sviluppare una maggiore presenza in una regione ai noi particolarmente cara". Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, lo ha sottolineato nel suo intervento in apertura dei lavori della conferenza che ha poi ospitato l'intervento del premier Meloni.

E ancora: "La giornata di oggi deve servire a riunire tutte le forze italiane dei diversi settori, imprenditoriali e politici, anche con la benedizione dell'Ue, per lanciare una presenza sempre piu' forte del nostro Paese in una regione che deve diventare anche parte del mercato europeo. Noi siamo per un'accelerazione".

 

Fonti varie agenzie e Pal.Chigi

Giorgia Meloni arriva ad Algeri e lancia la visione di un’Italia hub euromediterraneo del gas a pochi giorni di distanza dalla fine della triplice puntata di Antonio Tajani tra Turchia, Tunisia (in questo caso con Matteo Piantedosi) e Egitto che ha visto il Ministro degli Esteri italiano dialogare a tutto campo coi partner dell’Italia.

A ottobre Meloni nel suo discorso di insediamento aveva fatto riferimento a Enrico Mattei e a una visione prospettica su Mediterraneo, Africa e interesse nazionale. Ora è compito del governo costruirla contribuendo a un Mediterraneo libero, sicuro e in cui il ruolo dell’Italia possa essere di equilibrio tra le parti e, al contempo, garante securitario contro i rivali dell’Europa. Riscoprendo la lezione strategica dell’Italia della Ricostruzione, che seppe avere nell’agenda mediterranea, nelle sue varie declinazioni, la priorità della politica estera.

Per Amintore Fanfani e Aldo Moro il Mediterraneo era il terreno d’azione dell’originalità di politica estera della visione neoatlantista; per Giorgio La Pira il “Grande Lago di Tiberiade” in cui creare un dialogo modello per l’epoca della Guerra Fredda; per Giulio Andreotti e Bettino Craxi una linea di faglia del mondo bipolare dove far coesistere la natura decisiva del Paese e la sua natura di mediatore; per i comunisti il ponte tra Europa e Terzo Mondo, per i cattolici un laboratorio di ecumenismo.

L’Eni “africana” di Descalzi si muove tra Algeria, Libia, Congo, Mozambico, Angola. E si proietta, assieme all’industria energetica italiana, nel cuore del continente oltre il Grande Mare.

È con la tappa simbolica al Giardino Mattei  e iniziata la seconda giornata della visita ufficiale della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Algeria.

Nel giardino nel cuore di Algeri, dedicato al fondatore dell'Eni e inaugurato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel novembre 2021, la premier è stata accompagnata dal ministro algerino dell'Energia e delle Miniere, Mohamed Arkab, e dall'ambasciatore italiano ad Algeri, Giovanni Pugliese.

 "La visita di Giorgia Meloni riveste importanza particolare, a 20 anni dalla firma del trattato di cooperazione, e desidero esprimere la mia soddisfazione per il livello delle relazioni strategiche tra i due paesi amici". Lo afferma il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune nel corso della conferenza stampa. Tebboune ha ricordato la crescita degli interscambi tra Roma e Algeri a 16 miliardi di dollari nel 2022. "A questo riguardo, abbiamo ribadito di rafforzare la collaborazione nel settore energetico e per gli investimenti italiani", ha detto. Il presidente algerino ha quindi sottolineato l'identità di vedute con l'Italia su diversi temi. "Concordiamo sul sostegno alla missione Onu per risolvere la questione del Sahara occidentale". Tebboune ha tra l'altro fatto riferimento allo Stato palestinese e alla necessità che abbia un suo posto nell'ambito delle nazioni unite.

Al suo arrivo, a Meloni sono stati offerti datteri e latte da tre bambini in abiti tradizionali algerini. Poi la premier si è fermata in raccoglimento davanti alla lapide su cui Enrico Mattei è definito "personalità italiana, amico della rivoluzione algerina, difensore tenace e convinto della libertà e dei valori democratici, impegnato a favore dell'indipendenza del popolo algerino e del completamento della sua sovranità".

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è giunta al palazzo presidenziale El Mouradia per l'incontro ufficiale con il presidente della Repubblica algerina democratica e popolare, Abdelmadjid Tebboune. La premier è stata accolta dal picchetto d'onore e dallo stesso Tebboune. Dopo l'incontro fra il capo di Stato algerino e la presidente del Consiglio, è prevista una cerimonia di firma degli accordi di cooperazione. Nel primo giorno della sua visita la premier ha deposto una corona di fiori al Monumento del Martire.

"Ringrazio il presidente algerino e l'intero governo per questa accoglienza, non a caso la prima missione bilaterale che il nuovo governo ha inteso fare a dimostrazione di quanto l'Algeria è partner affidabile e di assoluto rilievo strategico.La missione avviene nell'anniversario della firma di trattato di amicizia e di buon vicinato firmato nel 2003 ad Algeri. Noi celebriamo la ricorrenza firmando una dichiarazione congiunta che sottolinea l'eccellenza delle nostre relazioni, ma non ci vogliamo fermare qui" ha detto la premier. "Vogliamo sperimentare nuovi campi di questa collaborazione, rafforzarla nel campo energetico, politico e culturale. Puntiamo a un partenariato per aumentare prospettive di crescita, in ottica di costruire ponti tra sponde del Mediterraneo e stabilizzare la regione, che per l'Italia e l'Europa è strategica. Serve un piano Mattei per l'Africa, su base paritaria con i paesi della sponda sud del Mediterraneo per trasformare le crisi in occasioni" ha aggiunto la premier Meloni.

"Le previsioni per azzerare le forniture di gas russo all'Italia? Sono positivo, nell'inverno 2024/2025, direi che continuando così le cose vadano nel verso giusto".
Lo ha detto l'ad di Eni, Claudio Descalzi, a margine della visita della premier Giorgia Meloni al Giardino Mattei ad Algeri.
"Aggiorniamo gli accordi annualmente sulle quantità che sono state rispettate: sono stati dati più di 3 miliardi di metri cubi e altri 3 miliardi nel 2023 e poi altri ancora".

"L'italia da un punto di vista geografico, logistico, infrastrutturale, ha molte connessioni non solo con l'Africa ma anche al Nord", ha proseguito l'Ad di Eni. "Soprattutto, con l'Africa siamo gli unici ad avere una connessione via pipe con l'Algeria, che ha una capacità di circa 36 miliardi di metri cubi, ancora sottoutilizzata: sono ancora circa più di 10 miliardi che possono arrivare in Italia. Abbiamo - ha continuato - una connessione via pipe con la Libia che vale adesso circa 12-14 miliardi di metri cubi in termini di capacità che, con adeguate aggiunte di compressione, può salire di parecchi miliardi. Poi abbiamo l'Egitto e tutta l'Africa, con Nigeria, Angola, Congo, Mozambico, che può portare energia".

"Da un punto di vista potenziale - ha continuato - già adesso siamo riusciti a recuperare quasi più del 50% del gas russo e soprattutto attraverso l'Africa. Abbiamo anche dei pipe al nord che non sono solo quelli da Tarvisio che vengono attraverso l'Ucraina dalla Russia, ma anche del gas che viene attraversando Francia, Germania e Svizzera, dalla Norvegia. Poi abbiamo il Tap che sta portando 7-8 miliardi di metri cubi e l'Azerbaigian in qualche anno pensa di poter ampliare". "Abbiamo - ha detto ancora - tantissimi punti di connessione, 5 o 4 se non contiamo Tarvisio in modo conservativo, e in più 3 rigassificatori di gas naturale liquido, che spero presto possano diventare 4 con Piombino, 5 con il Ravennate. Si parla di due più due".

Confindustria firma oggi un protocollo di partenariato con il Consiglio per il rinnovamento economico algerino (Crea), una delle maggiori organizzazioni datoriali dell'Algeria. Lo rende noto lo stesso Crea sulla propria pagina Facebook. Il consiglio ha tenuto una seduta di lavoro con una delegazione di Confindustria, guidata dal suo presidente, Carlo Bonomi. Nella sessione è stata elaborata "una tabella di marcia comune tra le due organizzazioni per la rapida attuazione del protocollo di partenariato, che firmeremo oggi, alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri (algerino) e della Presidente del Consiglio dei ministri italiano. La cooperazione italo-algerina è una reale opportunità per raggiungere lo sviluppo economico auspicato", conclude il post.

La cooperazione spaziale tra Italia e Algeria è al centro di un Memorandum di intesa fra le agenzie spaziali dei due Paesi, firmato in occasione della visita ufficiale ad Algeri della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Il Memorandum d'intesa viene concluso nel quadro del Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti. Le aree di cooperazione includono: le scienze dello spazio e l'esplorazione spaziale; la tecnologia applicata allo spazio; l'osservazione della Terra e la formazione. La cooperazione troverà attuazione attraverso lo scambio di conoscenza nella materia, l'organizzazione di seminari e workshop, lo sviluppo di progetti di interesse reciproco e l'organizzazione di attività di formazione. L'intesa è stata firmata dal presidente dell'Asi Giorgio Saccoccia e dal direttore generale dell'Asal Azzedine Oussedik.

Ridurre le emissioni di gas serra in Algeria e incrementare le esportazioni di energia verso l'Italia, anche attraverso un nuovo gasdotto per l'idrogeno: sono gli obiettivi dei due memorandum di intesa firmati da Eni e Sonatrach in occasione della visita ufficiale ad Algeri della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

Il primo dei due memorandum, firmati dall'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e dal presidente e direttore generale di Sonatrach Toufik Hakkar, punta a individuare congiuntamente le possibili attività per ridurre le emissioni di gas a effetto serra in Algeria, e le migliori tecnologie da utilizzare. L'Intesa prevede inoltre progetti congiunti sulla riduzione delle emissioni di Co2 nelle strutture produttive di idrocarburi in Algeria. 

Il secondo memorandum, per la valorizzazione della rete di interconnessione energetica tra i due Paese per una transizione energetica sostenibile, mira a individuare le migliori opportunità per incrementare le esportazioni di energia dall'Algeria verso l'Italia, attraverso lo studio congiunto sull'incremento della capacità di trasporto del gas esistente, la realizzazione di un nuovo gasdotto anche per il trasporto di idrogeno, la posa di un cavo elettrico sottomarino e l'aumento della capacità di produrre gas liquefatto.

Fonti inside over ansa agi

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