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Venerdì, 18 Ottobre 2024

Dal 28 febbraio al 3 maggio 2014, la Galleria Bottegantica di Milano (via Manzoni 45) ospiterà la mostra dedicata a Pompeo Mariani (Monza, 1857 – Bordighera, IM, 1927).

L’esposizione, organizzata in collaborazione con la Fondazione Pompeo Mariani di Bordighera e curata da Enzo Savoia e Stefano Bosi, presenterà 100 capolavori, provenienti da importanti collezioni private italiane e straniere, in grado di documentare la ricerca di soluzioni stilistiche nuove e moderne e la varietà delle tematiche affrontate da uno dei principali esponenti della pittura italiana dell’Ottocento.

Pompeo Mariani fu felice interprete della società di cui fece parte, ne seppe cogliere l’eleganza e le sfumature più vitali; attraverso una tecnica coloristica vivace e armoniosa, rappresentò nei suoi quadri una molteplicità di soggetti che spaziano dalle vedute del parco di Monza a quelle del porto di Genova, dalle marine in burrasca di Bordighera alle sale affollate del Casinò di Montecarlo, sino alle sconfinate distese verdi delle lanche del Ticino. Tra i temi dipinti dall’artista vi furono anche i teatri, i caffè, le corse dei cavalli; luoghi preposti alla vita sociale, palpitanti di volti umani e ricolmi di quel dinamismo e di quella fiducia nel progresso che hanno caratterizzato gli anni ruggenti della Belle Époque.

Il percorso espositivo si snoderà attraverso una serie di opere di grande importanza storico-critica, come quelle dedicate al periodo della Belle Époque, di cui Mariani con ironia registrò i trionfi ed esaltò gli eccessi: nel Palco alla Scala (1900), Attenti alle pozzanghere (1904-1908), La lettera d’amore (1908), Le inglesi al Tè (1908), Le perdute a Montecarlo (1909 circa), I sistemisti alla roulette (1910).

Finito il concerto (1914) e Il tavolo verde-Montecarlo (1916 circa) documentano bene la lunga, quanto attenta riflessione dell’artista monzese per il rituale mondano della nobiltà, italiana e straniera, e superano l’elemento descrittivo per un’autonomia di costruzione di figure eteree tra gli interni lussuosi dei casinò di Montecarlo e di Sanremo, del caffè Cova o tra i verdi prati di San Siro a Milano.

Molto interessanti sono anche i “paesaggi d’acqua”, tra cui le vedute del porto di Genova, nelle quali Mariani coglie i più delicati effetti atmosferici delle ore estreme del giorno, e le “impressioni” marine dell’amata Bordighera, che frequenta a partire dal 1889 e dove si trasferisce definitivamente nel 1907. Esemplari, a riguardo, sono Effetto di luna (1885), La Lancia Reale alla feste Colombiane (1892), Umberto I Re d’Italia entra a Genova l’8 settembre 1892 (1892), Mare in burrasca (1906) e La calma (1918): lo studio attento del flusso e riflusso delle maree, il frangersi delle onde contro gli scogli, il volo dei gabbiani, il loro posarsi sulle onde, il veloce immergersi per procurarsi il cibo, testimoniano i lunghi appostamenti e le accurate osservazioni da parte di Mariani.

A queste vedute “pure” si affiancano i paesaggi animati dalla presenza umana ambientati alla Zelata – spiaggia inondata dalle acque del Ticino nei pressi di Bereguardo, vicino a Pavia – fra cui Cacciatori alla Zelata d’inverno (1894), dove il naturalismo degli anni precedenti si apre all’impressione del vero e si incanala verso una crescente libertà esecutiva che Mariani applica anche alle opere di soggetto orientale, realizzate durante il viaggio compiuto in Egitto nel 1881 e documentate in mostra da Mercato al Cairo (1881), Veduta delle Piramidi (1881) e da Ragazza del Cairo (1881); in questi lavori, la sua tavolozza si rischiara e si impreziosisce di gialli squillanti e di azzurri intensi.

L’esposizione si chiude idealmente con la sezione dedicata alla ritrattistica, genere al quale Mariani si dedica nel corso di tutta la sua carriera, giungendo a esiti straordinari sia nelle opere a olio, come il vigoroso Ritratto di Thea Rossi (1882), sia in quelle a pastello, come Ritratto femminile (1903 circa) e Ritratto di signora in azzurro (1908 circa), capaci di fissare in un attimo un’espressione, uno stato d’animo.

L’iniziativa milanese rappresenta un ulteriore contributo allo studio e alla conoscenza della lunga, quanto fortunata parabola artistica di Mariani, iniziata nel 1878 a Milano sotto l’egida del pittore Eleuterio Pagliano e conclusasi con tutti gli onori a Bordighera, in Liguria, nel 1927: nella sua carriera Mariani ha esposto infatti in ben 480 mostre, ottenendo – unico artista al mondo – quattordici medaglie d’oro e nove d’argento, mentre le sue opere hanno avuto acquirenti illustri quali, ad esempio, Andrew Carnegie, Charlie Chaplin, Max Linder, Giacomo Puccini, Arturo Toscanini, Adolph Thiem, lo zar di Russia Nicola II, la Real Casa di Savoia, le famiglie Bernasconi, Florio, Rockefeller e Rothschild.

Per la prima volta, al di fuori delle mura di Napoli, viene esposto un numero così consistente di capolavori provenienti dalla collezione di arte orafa più importante al mondo, accanto a documenti originali, dipinti, disegni, arredi sacri.
Con venticinque milioni di devoti sparsi in tutto il mondo, San Gennaro è il santo cattolico più famoso e conosciuto nel mondo. La sua è una lunghissima storia legata strettamente a Napoli, tra devozione e pregiudizio, fede e incredulità, fino a una fortissima identificazione tra il Santo protettore e la coscienza di un popolo periodicamente minacciato da catastrofi naturali ed eventi storici.

La mostra offre l’occasione di approfondire da un punto di vista scientifico l’inestimabile valore artistico e culturale del Tesoro di San Gennaro.

Dal 30 ottobre 2013 al 16 febbraio 2014, il Museo Fondazione Roma, nella sede di Palazzo Sciarra, ospita la mostra IL TESORO DI NAPOLI. I Capolavori del Museo di San Gennaro, promossa dalla Fondazione Roma e organizzata dalla Fondazione Roma-Arte-Musei in collaborazione con il Museo del Tesoro di San Gennaro di Napoli.

L’esposizione curata da Paolo Jorio, direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro, e Ciro Paolillo, esperto gemmologo e docente di Storia, economia e produzione della gioielleria presso l’Università La Sapienza di Roma, con la consulenza di Franco Recanatesi, è un evento unico di grande rilevanza storica e artistica: per la prima volta, quasi 70 opere provenienti da una delle collezioni di arte orafa più importante al mondo, sono presentate al di fuori delle mura della città partenopea accanto a documenti originali, dipinti, disegni, arredi sacri.

La mostra offre l’occasione di approfondire da un punto di vista scientifico l’inestimabile valore artistico e culturale del Tesoro di San Gennaro per far riscoprire, tramandare e rivivere attraverso un viaggio nel tempo, Napoli e il suo nume tutelare, la sua storia, i suoi artisti e soprattutto l’inestimabile patrimonio che si è accumulato lungo sette secoli.
La mostra di Roma offre l’occasione per scoprire altri tesori come, ad esempio, la Croce in argento e coralli del 1707, dono della famiglia Spera, che testimonia la grande diffusione che ebbe a Napoli in epoca barocca l'uso del corallo accostato all'argento, sia in ambito laico che religioso.

Il Calice in oro, rubini, smeraldi, brillanti dell'orafo di corte Michele Lofrano, commissionato da Ferdinando di Borbone e realizzato nel 1761. L'Ostensorio in argento e rubini (1808) donato come atto di devozione al santo patrono da Gioacchino Murat al suo arrivo in città su suggerimento di Napoleone. La Pisside gemmata in oro, rubini, zaffiri, smeraldi e brillanti offerta da Re Ferdinando II nel 1831. L'Ostensorio in oro, pietre preziose, perline, smalti (1837), uno splendido esempio di ripresa di modelli barocchi in un oggetto dai caratteri ormai neoclassici. L'ostensorio venne dato da Maria Teresa d'Austria in occasione delle sue nozze con Ferdinando II. Il Calice in oro zecchino (1849), donato da Papa Pio IX nel 1849 per ringraziare i napoletani dopo essere stato ospitato in asilo a causa dei moti mazziniani di Roma, è uno dei pochi di manifattura non napoletana essendo stato realizzato dall'orafo Valadier a Roma. La Croce episcopale in oro, smeraldi e brillanti, donata da Re Umberto I e Margherita di Savoia il 23 novembre 1878 nella prima visita a Napoli dopo la loro assunzione al trono, per rendere omaggio al Santo patrono della città regalando così alla Cappella del Tesoro una croce in diamanti e smeraldi purissimi e con laccio d'oro. Infine la Pisside in oro, corallo e malachite (1931), realizzata dalla famiglia Ascione di Torre del Greco e donata da Umberto di Savoia il 5 novembre 1931 quando si trasferì con la moglie José a Napoli.
Lavoro di squisito gusto barocco sono i due Splendori, così chiamati proprio in virtù della magnificenza e dell'imponenza delle loro dimensioni (365 cm di altezza), opera dell’argentiere Filippo del Giudice su disegno di Bartolomeo Granucci (1744), donati da re Carlo III di Borbone e dalla regina Maria Amalia di Sassonia, che precedono la balaustra dell’Altare Maggiore.

A tutto tondo i puttini sul globo terrestre e le tre virtù: Fede (il calice), Speranza (l’ancora) e Carità (donna che allatta bambino). Alle tre virtù teologali corrispondono, sull’altro candeliere, tre allegorie che forse esaltano i meriti di Carlo di Borbone, il quale contribuì con l’offerta di duemila ducati. Queste le tre allegorie: Fortezza (donna con elmo in testa, scudo sul braccio e lancia in mano), Mansuetudine (donna con agnello), Buon Governo (donna che regge il globo). Nei documenti appare chiaro che gli Splendori furono donati da Carlo III di Borbone e della regina Maria Amalia di Sassonia e commissionati dalla Deputazione stessa, senza specificare mai nomi precisi di alcun deputato.

La mostra a Palazzo Sciarra si sviluppa secondo un percorso scientifico senza escludere un approccio anche emozionale, per descrivere quale è stata l’evoluzione del culto di San Gennaro a Napoli, il motivo per cui il Tesoro appartiene ad un’istituzione laica e come l’arte orafa partenopea si sia perfezionata nei secoli, dando vita a gran parte dei capolavori esposti.

Per far comprendere l’impatto di questo appuntamento, basti dire che il Tesoro di San Gennaro, formatosi attraverso settecento anni di donazioni di papi, imperatori, re, ma anche di ex voto popolari, ha un valore storico superiore a quello dei Gioielli della Corona d’Inghilterra e dello Zar di Russia, come ha rilevato una ricerca pubblicata nel 2010 e compiuta da un’equipe di gemmologi coordinata dal Prof. Ciro Paolillo, curatore della mostra, che nell’arco di un triennio ha effettuato approfonditi studi su alcuni dei preziosissimi gioielli donati al Santo e che saranno esposti a Roma.
Inoltre, al contrario di quanto accaduto per altri patrimoni dinastici ed ecclesiastici, il Tesoro si è mantenuto intatto dalla sua nascita ad oggi, senza mai subire spoliazioni e senza che i suoi preziosi fossero venduti per finanziare guerre, in un processo di acquisizione e ampliamento continuo.

Il percorso espositivo ruota attorno ai due più straordinari capolavori del Tesoro: la Collana di San Gennaro, in oro, argento e pietre preziose, realizzata da Michele Dato nel 1679 e la Mitra, in argento dorato, 3326 diamanti, 164 rubini, 198 smeraldi e 2 granati, creata da Matteo Treglia nel 1713, di cui quest’anno si celebrano i 300 anni della realizzazione.
La Collana di San Gennaro è uno dei gioielli più preziosi esistenti al mondo e la sua storia si intreccia indissolubilmente con il percorso della costante devozione tributata al Santo dalla città e dai regnanti nel corso dei secoli. Nel 1679 i Deputati decidono di utilizzare alcune gioie (tredici grosse maglie in oro massiccio al quale sono appese croci tempestate di zaffiri e smeraldi) per creare un magnifico ornamento per il busto, dando mandato a Michele Dato, cui si affiancarono altri artigiani, per consentire la realizzazione di un pezzo così impegnativo nell’arco di soli cinque mesi.

Attualmente la collana comprende anche altri gioielli di diversa fattura e datazione e di provenienze illustri: una croce donata nel 1734 da Carlo di Borbone, una croce offerta dalla regina Maria Amalia di Sassonia, una ciappa in tre pezzi con diamanti e smeraldi, una croce di diamanti e zaffiri del 1775 donata da Maria Carolina d'Austria, una spilla a forma di mezza luna del 1799 donata dalla Duchessa di Casacalenda, una croce e una spilla in diamanti e crisoliti offerte da Vittorio Emanuele II di Savoia ed altri oggetti ancora.
Particolare curioso è che nel 1933 Maria Josè, moglie di Umberto II di Savoia, si trovò a visitare la Cappella di San Gennaro in forma privata e non avendo portato con sé nulla da donare, si sfilò l’anello che indossava offrendolo al Santo. Questo dono regale trova ora posto sulla collana.
Lo stesso Napoleone, che ovunque ha depredato e sottratto, quando approdò a Napoli non solo non prelevò nulla, ma unico caso nella storia, ha addirittura donato. Giuseppe Bonaparte, infatti, quando entrò a Napoli donò, su consiglio del fratello, nel 1806 una croce di diamanti e smeraldi di rara bellezza che poi la Deputazione volle inserire tra i gioielli donati dai sovrani che compongono il collare di San Gennaro dal valore inestimabile. Anche il cognato di Napoleone, Gioacchino Murat, che aveva sposato la bellissima Carolina Bonaparte, seguì il suggerimento dell’imperatore francese e volle donare nel 1808 un ostensorio in oro, argento e pietre preziose. Tutti e due i capolavori saranno esposti nella mostra di Roma.

Tra i dipinti che sono esposti si trova la rappresentazione di San Gennaro, quadro realizzato dal Solimena nel 1702, un autentico capolavoro cromatico, divenuto ancor più famoso perché da quell’anno tutte le immagini del Santo patrono di Napoli riprendono questa iconografia.

La Mitra, di cui quest’anno si celebra il 300° anniversario della realizzazione, venne commissionata dalla Deputazione per essere indossata dal busto durante la processione in occasione dei festeggiamenti nell’aprile del 1713. Vede la luce nell’Antico Borgo Orefici, voluto dai sovrani angioini, una vera fucina di talenti, fra cui l’autore: il maestro orafo Matteo Treglia. Il valore della mitra è enorme, sia per quanto concerne la materialità dell’oggetto, sia per la forte simbologia di cui è intrisa.
3964 pietre preziose tra cui diamanti, rubini e smeraldi ornano la Mitra, secondo una tradizione di costruzione di oggetti ecclesiastici legata alla simbologia delle pietre: lo smeraldo rappresentava l’unione della sacralità del Santo con l’emblema dell’eternità e del potere, i rubini il sangue dei martiri e i diamanti il simbolo della fede inattaccabile.
Inoltre, le pietre raccontano un’altra affascinante vicenda. Si è scoperto, infatti, che alcune provengono da antiche cave dell’America latina. Come afferma Ciro Paolillo: “Grazie alla dedizione del Treglia oggi ci troviamo di fronte a una delle più belle collezioni di smeraldi degli antichi popoli sudamericani esistenti al mondo e per tale motivo queste pietre acquistano un valore, non solo per la loro preziosità ma anche per la loro storia”.

 

La mostra, curata da Valerio Dehò, con il sostegno di Licini Gomme e Trizero, propone oltre cento opere, realizzate dal 1965 a oggi, in grado di documentare il percorso creativo di un artista che è riuscito a combinare gli echi della Pop Art internazionale con la razionalità della Metafisica di Carlo Carrà.

Il titolo della rassegna, L’enigma dell’ovvio, rispecchia perfettamente la poetica di Tino Stefanoni fatta di elementi semplici, ma che vengono presentati in un modo spiazzante, facendoli diventare qualcosa di misterioso. La dimensione di apparente semplicità, rende enigmatici questi lavori che attestano la qualità e il pensiero di un artista che ha traversato da protagonista gli ultimi 50 anni di storia dell’arte italiana.

Il percorso espositivo cronologico, si apre con le opere nelle quali si avvertono le suggestioni della Metafisica di Carlo Carrà che Stefanoni predilige rispetto a quella di Giorgio de Chirico per la sua capacità di far scoprire la bellezza nascosta nella vita quotidiana. Nel ciclo dei Riflessi (1965-1968), i piccoli rilievi tondi diventano la base per dipingere dei paesaggi in miniatura, in cui già si percepisce la cura al dettaglio che diventerà nel tempo una delle cifre più caratteristiche dell’artista lecchese. A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Stefanoni intuisce per primo la possibilità di utilizzare la segnaletica stradale nella rappresentazione della realtà, in maniera ironica e distaccata. Nascono così i Segnali stradali regolamentari, al cui interno sono inseriti oggetti-icona che rispondono a quell’esigenza linguistica, propria di quegli anni, di far conquistare all’elemento visivo territori che appartenevano alla parola.
Queste immagini ritornano protagoniste nelle tele degli anni ’70 che mostrano una ‘metafisica senza mitologia’ con oggetti comuni come matite, mescoli, borse per l’acqua, flaconi, imbuti, e altro, disposti su ordinate fila, sovrapposti o affiancati gli uni agli altri che dialogano con lo spazio vuoto o segnato da linee geometriche.
È il caso del ciclo delle Piastre, guida per la ricerca delle cose (1971), sculture che rispettano la bidimensionalità del disegno o della pittura o delle Memorie (1975-1976) dove le tracce degli oggetti sono replicati dai segni lasciati dalla carta carbone. In questi lavori, il richiamo alla Pop Art svanisce a favore del rigore dell’arte concettuale, alla quale Stefanoni si avvicina già alla fine degli anni ‘70 con Elenco di cose (1976-1983), una serie di 215 quadri realizzati con la lente d’ingrandimento, dove soggetti minimali e quotidiani, estranei alla tradizione della pittura come pinze o martelli, diventano protagonisti di una ritrattistica quasi maniacale. A questa, seguirà quella delle Apparizioni (1983-1984) in cui domina l’essenzialità della linea e la distanza dal colore, con immagini impalpabili come colte attraverso un cielo nebbioso.
Come afferma il curatore, Valerio Dehò, “Tino Stefanoni non adopera dei simboli, non vuole far aprire le porte all’ignoto o dell’inconoscibile. La sua apparente freddezza racchiude una passione per tutto ciò che di semplice l’uomo sia riuscito a creare, la sua arte ha pochi coinvolgimenti emotivi in questa fase proprio per l’essenzialità della disciplina platonico-cartesiana ma presuppone la complicità dello spettatore, la sua capacità di farsi sorprendere dall’ovvietà come strada per rileggere l’intera realtà. Il lavoro di Stefanoni è cristallo di rocca da scaldare con lo sguardo”.
Dalla metà degli anni ’80, con Senza titolo, il colore racchiuso dalla linea nera caratterizza le nature morte e le vedute, mai la figura umana. Sono ambientazioni nelle quali Stefanoni recupera, senza mitizzarla, la Metafisica di Carlo Carrà e Giorgio de Chirico, ma in cui è sempre presente la memoria della lezione di eleganza e rarefazione del Beato Angelico, al quale spesso Stefanoni si richiama per la passione per l’osservazione, legata alla rivelazione delle geometrie segrete tra gli oggetti e gli elementi del paesaggio. Le sue casette, i suoi alberi sono oggetti ridotti all’essenziale, alla semplicità di una forma riconoscibile, quasi illustrativa. Sono elementi della storia dell’arte italiana che diventano icone, per questo devono essere comprensibili, proprio perché hanno dei valori diversi dalla semplice rappresentazione.
I paesaggi o le nature morte che costituiscono gran parte del lavoro di Stefanoni non vogliono spiegare o raccontare, quanto rappresentare
uno stato delle cose. Anche le sue più recenti Sinopie, richiamando la tecnica dell’affresco, riflettono questo suo inserimento nella classicità del
dipingere e aprono a delle forme di azzeramento del colore e dei contorni dei paesaggi, fino a diventare semplice pittura, sempre alla ricerca dell’essenzialità.

Accompagna la mostra, un catalogo (bilingue italiano-inglese; edizione Fondazione Gruppo Credito Valtellinese), con testo del curatore e un saggio inedito che Arturo Schwarz ha voluto dedicare a Tino Stefanoni.

Di Tino Stefanoni è in preparazione il catalogo generale della sua opera, che sarà pubblicato da Umberto Allemandi & C., a cura della Galleria Armanda Gori, Prato.

Note biografiche

Tino Stefanoni, nato a Lecco nel 1937, ha studiato al Liceo Artistico Beato Angelico e alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano.
La sua vera e propria attività artistica inizia nel 1967 con il conseguimento del 1° premio S.Fedele di Milano e nel 1968 con la prima
personale alla storica galleria Apollinaire di Milano con un saggio di Pierre Restany.
Dal 1967 a oggi molte sono le esposizioni in Italia e all'estero; tra queste si ricordano: 1968 Galleria Bertesca, Genova - 1972 Galleria Paul Facchetti, Parigi e Zurigo - 1977 Galleria Art Global, S.Paolo e Petite Galerie, Rio in Brasile - 1978 Galleria Corraini, Mantova - 1981 Galleria Art in Progress di Dusseldorf e Monaco - 1986 Galleria Pio Monti, Roma - Galleria Krief, Parigi - Galleria Roy, Losanna - 1989 Galleria Hete Hunermann, Dusseldorf - Galleria Ahlner, Stoccolma - galleria Totah, Londra – 1992 Galleria Artiscope, Bruxelles - 1994 Galleria Tovar & Tovar, Bogotà - 1996 Palazzo Civico, Sarzana - 1997 Castello di Rivara (To) - 1999 Galleria S. Fedele, Milano (con Salvo) - 2001 Galleria Baumgartl, Monaco - 2002 Galleria Fabjbasaglia, Rimini - Invitato alla XIII e XIV Quadriennale di Roma - 2003 Galerie Numaga, Neuchatel - 2004 Università Bocconi, Milano.
Ha esposto in molti musei e spazi pubblici: Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 1977, Museo I C C di Anversa nel 1981, Museo Koekkoek di
Kleve nel 1990, Stadtgalerie di Sundern (D) nel 1992, Museo di S.Marino e Villa Manzoni di Lecco nel 1994, Istituto Italiano di Cultura di Parigi nel 1996 e di Chicago nel 1997, Chiostri di S.Domenico a Reggio Emilia nel 1999, Museo di Tortolì (Nu) nel 2000, Palazzo Forti di Verona nel 2002, Trevi Flash Art Museum nel 2003 e Palazzo Pubblico Magazzini del sale di Siena nel 2006, unito alla creazione del Drappellone del Palio del 16 agosto 2006.
Nel 1970 e nel 2011 ha partecipato alla Biennale di Venezia.

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