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Il giovane pianista Alberto Ferro incanta Venezia

A poco più di anno dalla vittoria del Premio Venezia, il talentuoso Alberto Ferro è tornato il 7 e l’8 gennaio a esibirsi nella città di san Marco. Il giovane pianista di Gela ha regalato al pubblico del teatro Malibran una convincente interpretazione dei Canti della Stagione Alta, il troppo raramente eseguito Concerto per pianoforte e orchestra composto nel 1930 da Ildebrando Pizzetti (1880-1968). Dal podio, l’estone Risto Joost ha diretto l’Orchestra del Teatro La Fenice.

La Stagione Sinfonica 2016/2017 del Teatro la Fenice – della quale i concerti sopra citati costituivano il sesto appuntamento – ha un filo conduttore dichiarato: riannodare il panorama musicale italiano più recente a quel Novecento strumentale pre-bellico i cui protagonisti hanno, per ragioni anagrafiche, obbligatoriamente percorso parte della propria parabola artistica negli anni del fascismo. Nel cartellone, infatti, sono state inserite – in ordine di esecuzione – opere di Giovanni Salviucci (1907-1937); Gian Francesco Malipiero (1882-1973); Goffredo Petrassi (1904-2003); Pizzetti; Camillo Togni (1922-1993); Alfredo Casella (1883-1947); Nino Rota (1911-1979); Gino Marinuzzi (1882-1945).

Secondo l’opinione di Giuseppe Pennisi, su molti autori di questo «primo» Novecento italiano – giudicati in blocco, e spesso a torto, compromessi con il regime di Mussolini – ha gravato per decenni una damnatio memoriae che li ha, di fatto, esclusi dai teatri d’opera e dalle sale da concerto. Solo di recente – grazie, per esempio, alle esecuzioni del maestro Francesco La Vecchia e della sua Orchestra Sinfonica di Roma – tale coltre d’oblio si sta felicemente diradando.

Tra i più danneggiati da questa sorta di conformismo culturale – soprattutto in rapporto alla loro qualità di compositori – campeggiano Casella e Pizzetti, quest’ultimo nominato nel 1939 membro della Reale Accademia d’Italia, come peraltro era accaduto in precedenza a Umberto Giordano, Pietro Mascagni, don Lorenzo Perosi e Ottorino Respighi. L’istituzione era nata nel 1929 per «promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l'espansione e l'influsso oltre i confini dello Stato».

A innescare un ritorno di attenzione verso il Pizzetti operista è stato, con ogni probabilità, l’allestimento avvenuto nel 2009 presso il Teatro alla Scala di Milano di Assassinio nella cattedrale, l’opera tratta dalla pièce omonima di Thomas Stearns Eliot (1888-1965).

Ci auguriamo che questa performance di Alberto Ferro riesca ad attivare un analogo processo virtuoso per il meritevole Concerto per pianoforte pizzettiano. Il Concerto, va detto, è di suo accattivante: è caratterizzato da uno spiccato lirismo – si tratta di Canti, appunto ed è impreziosito da inflessioni modali e climax commoventi.

Presente in sala la sera del 7, ho apprezzato del solista il nitore della tecnica e il calore dell’interpretazione, nonché il controllo del volumi sonori. Credo siano le stesse qualità, accanto alla compostezza della postura, apprezzate dal pubblico di Bruxelles quando, in occasione delle finali della Queen Elisabeth Competition 2015, Alberto Ferro si è cimentato nel Concerto no. 1 di Sergei Rachmaninoff (1883-1943) – la mirabile esecuzione è su youtubeguadagnandosi una standing ovation.

L’empatia con la composizione pizzettiana si è in particolare palesata quando, verso la fine del primo movimento, il pianista siciliano ha suonato una propria cadenza, invero molto solare, composta per l’occasione.

Quanto all’orchestra, l’esecuzione dei Canti – che, fuor di battuta, richiede strumentisti non mediocri – deve averla probabilmente stremata. Nonostante l’impegno e l’entusiasmo profusi dal direttore, la resa della Quinta Sinfonia di Jean Sibelius (1865-1957) proposta nel secondo tempo della serata non è stata brillante. Si è avuta quasi l’impressione che gli orchestrali suonassero controvoglia e non apprezzassero la partitura. Una qualche unità d’intenti si è ritrovata solo nel finale, quello con il celebre «tema dei cigni» che, in una Venezia dalla temperatura sottozero, hanno sì spiccato il volo, ma con le ali alquanto intirizzite.

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