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Sabato, 01 Giugno 2024

Com'era prevedibile il 100° anniversario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) in quel di Livorno ha scatenato i più svariati commenti su tutti i giornali. Tuttavia si tratta di un anniversario su cui riflettere, senza complessi d’inferiorità, scrive Vincenzo Pitotti su alleanzacattolica.org.

In questi mesi per ricordare questo evento sono stati pubblicati libri, articoli e saggi, nonché documentari televisivi, il tutto con un'unica caratteristica: un giudizio positivo con toni retorici di quell'evento.

«Ma al di là della retorica e dell’enfasi con la quale ancora oggi si riparla di quegli eventi, occorre spiegare ai giovani, che probabilmente ignorano questa storia, che su di essa c’è molto da capire e nulla da festeggiare, perché fin dai suoi primordi il Partito Comunista Italiano si legò a doppio filo con il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, di quello che fu l’impero socialcomunista, il più grande impero ideocratico della storia, durato oltre settant’anni». (Vincenzo Pitotti, I cento anni del Partito comunista italiano, 24.1.21, alleanzacattolica.org).

Comunque sia studiare la storia del Pci, la sua teoria dell'azione, il suo modello operativo per conquistare il potere e per fare la Rivoluzione in Italia, non è un futile esercizio di tipo archeologico. Anche se il comunismo è morto, il PCI non esiste più, esistono i suoi eredi, lo studio del fenomeno Pci è sempre utile. Studiare il passato non è mai inutile, anche perchè come diceva il fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, tra l'altro anche riferendosi al comunismo italiano, “Chi sbaglia Storia, sbaglia politica”.

Certo gli “eredi” del Pci hanno rinunciato molto alla dottrina, ma non al relativismo ed alle sue conseguenze operative. Anni fa avevo raccolto uno studio sulla“strategia gramsciana e la via italiana al comunismo”. Per questa ricostruzione sintetica mi avvalevo soprattutto di materiale fornito dagli stessi esponenti comunisti. In quel frangente il mio scopo era anche soprattutto di sfatare un luogo comune diffuso e tuttora condiviso, quello della «serietà» del PCI e quindi dei suoi «eredi», che determina complessi di inferiorità negli avversari, e troppo spesso ne condiziona, se non ne paralizza, l’azione.

Il mito della «serietà» del PCI.

«Serio» diventa sinonimo di «buono», «rispettabile», «affidabile»: «si può dissentire su qualche punto, anche su molti punti, ma non v’è nulla da temere realmente, il PCI (e poi il PDS, DS e ora Pd) è “serio” e quindi non deve far paura, anzi ha fatto tanto bene all’Italia». Questo il luogo comune corrente, anche in ambienti anticomunisti.

Vediamo se è vero. Seppure si può convenire sulla «serietà» del PCI , non si può non notare che anche la mafia, per esempio, è da considerare «seria», molto seria.

Non sto paragonando il PCI alla mafia, per il semplice motivo che il PCI è molto peggio della mafia. Questa, infatti, ha una vocazione territoriale limitata – o almeno fino a poco tempo fa così era – e limitati sono anche i suoi scopi. Essa si propone di prelevare forzosamente soltanto una parte dei beni prodotti nel territorio che controlla o che cerca di controllare. Il suo fine di potere e arricchimento per quanto odioso è limitato: non vuole tutto, né delle ricchezze (cioè dei beni materiali), né delle coscienze (cioè dei beni morali). Pretende «solo» omertà e soggezione rispetto ai propri affari, ma non di trasformare la mentalità ed il modo stesso dell’esistenza di tutta la comunità nazionale, anzi di tutto il mondo, mediante l’espropriazione e la gestione centralistica di tutti i beni materiali per meglio controllare le coscienze.

Il comunismo, e quindi il PCI come componente del movimento comunista internazionale, con «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», come affermavano Marx , Engels e Fuerbach.

Una trasformazione che consiste, sosteneva Feliks Edmundovic Dzerzinskij (1877-1926), primo capo e organizzatore della CEKA (Crezvycajnaja Kommissija po bor’be s kontrrevoljuciej i sabotazem, («Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio») nel «mutare la correlazione di forze politiche mediante il soggiogamento o lo sterminio di alcune classi della società», e quindi, ultimamente, in un rifiuto della natura umana ed in un tentativo, espressione di una smisurata volontà di potenza, di modificarla radicalmente, in vista dell’uomo nuovo, «superuomo» che non abbia più bisogno di Dio, della patria, della famiglia, della proprietà.

Con l’Ottobre rosso, «l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura», affermava Vladmir Maksimov.

Il PCI, che ha sempre presentato il regime nato dalla Rivoluzione Bolscevica come il laboratorio di un mondo nuovo e migliore e come luogo iniziale di esso, non ha mai dato alla sua azione politica una prospettiva minore.

Infatti, l’URSS staliniana è stata proposta come autentica metafora del paradiso in terra: «La parola “Stalin” e, l’altra, “URSS” – che ne definiva le realizzazioni storiche (la vittoria sul nazifascismo, l’edificazione in concreto del migliore dei mondi possibili) – ben al di là della bonaria immaginazione di un grand’uomo del popolo con i baffi alla quale si riferivano, valevano come una metafora laica del paradiso cattolico: esprimevano unitariamente l’ideale di una felicità assoluta, sintesi di moralità e benessere, in alternativa alle promesse inquietanti e corruttrici del capitalismo americanista». (Giuseppe Carlo Marino, Autoritratto del PCI staliniano.1946-1953, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 12.)

Pertanto verifichiamo se davvero «serio» equivale, con riferimento al PCI, a «buono», «affidabile», «rispettabile». Dunque, come la mafia, e più della mafia, il PCI mette la «serietà» al servizio di scopi e propositi da temere e contrastare tanto di più, quanto più «seriamente» perseguiti.

Il mito del «Grande Partito Comunista» di Gramsci, Togliatti.

E Berlinguer (Enrico Berlinguer, 1922-1984) etc., va sfatato anche in riferimento alla sua «serietà», se con questo attributo gli si vuol riconoscere almeno una certa quale superiorità etica e politica. Eticamente superiori certo non possono essere considerati coloro che fin dall’inizio hanno falsificato la propria storia, facendola iniziare da Antonio Gramsci (1891-1937) e Palmiro Togliatti (1893-1964), cancellando con perfetta ed orwelliana costumanza «terzinternazionalista» il vero fondatore del PCd’I al tempo della scissione di Livorno, quell’Amedeo Bordiga (1889-1970) – che non trasformo certo qui in eroe –, caduto in disgrazia siccome ritenuto trotzchista (o qualificato trotzchista per farlo cadere in disgrazia) – come non trasformo in eroe Trockij (Lev Davydovic Bronstein, 1879-1940), il quale ha semplicemente subito il trattamento che avrebbe riservato agli altri se a prevalere nella lotta all’interno del partito fosse stato lui. Né eticamente superiori sono mai stati quei dirigenti che hanno prima isolato i Gramsci ed i Terracini (Umberto Elia Terracini, 1895-1983) in mano al nemico fascista (salvo poi «riabilitarli» secondo convenienza), e poi pronunciato il famoso appello ai «fratelli in camicia nera» («Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!»). Per chi è interessato, a questi fatti, può confrontare, Ruggiero Zangrandi (1915-1970), Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Garzanti, Milano 1971, pp. 90-91; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 44-45, 134; e Aldo Agosti (storico comunista), Palmiro Togliatti, UTET, Torino 1996, pp. 205-208, e pp. 210-212.

Mentre per quanto riguarda la «consegna del silenzio» riguardo Gramsci.. all’epoca della proclamazione dell’ Impero sui colli fatali di Roma, i comunisti, hanno ingoiato il «patto Molotov-Ribbentrop», dimenticando subito il loro antifascismo e la solidarietà internazionalistica con la Polonia aggredita. Per l'episodio faccio riferimento a Victor Zaslavsky, Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 1998, (pp. 8-11).

Altro episodio inquietante che ha visto protagonisti i comunisti è stato durante la guerra civile spagnola, qui hanno provveduto – e fra essi anche il «buono» Giuseppe Di Vittorio (1892-1957) – alla «liquidazione» di militanti ed organizzazioni di parte repubblicana che non fossero di stretta obbedienza comunista e «cominternista» (Cfr. Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, L’ombra dell’NKVD in Spagna, in AA.VV., Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 312-329 (313-317), e Gabriele Ranzato, La guerra di Spagna, Giunti, Firenze 1995, pp. 61-65 e p. 106). Poi eventualmente hanno provveduto a combattere contro gli insorgenti «nazionali», guidati da Francisco Franco, in perfetto stile, non tanto stalinista, quanto leninista. La tecnica era sempre la stessa: primo: dominare il partito, fino al punto di costruirsene uno «proprio», di scissione in scissione, selezionando tra i militanti i seguaci più fedeli al capo ed alla sua linea; secondo: conquistare al partito la leadership assoluta sul movimento rivoluzionario.

Operazione è stata fatta nei confronti del Comitato Centrale del Partito polacco, come si evince in Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, Il Comintern in azione, in AA.VV., Il libro nero del comunismo, (pp. 255-311); (281-282). Ma soprattutto nei confronti degli esuli antifascisti e comunisti di ogni nazionalità, e quindi anche italiani, rifugiatisi nella «patria dei lavoratori», per questo confronta, Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 144; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 11-19; e A. Agosti, op. cit., (pp. 214-223).

Questi compagni, tra cui Togliatti, hanno ritenuto la morte nei campi di concentramento sovietici di migliaia di prigionieri italiani «espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia». Vedi, Palmiro Togliatti, lettera a Vincenzo Bianco del 15 febbraio 1943, cit. in Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998,( p.165). Sempre gli stessi “seri” compagni, sono quelli che alla fine degli anni ’40 si sono opposti presso i sovietici al rimpatrio dei prigionieri superstiti.

La guerra civile, la cosiddetta "Resistenza".

Continuando con la stessa tecnica, gli stessi compagni "seri", hanno utilizzato la guerra civile in Italia tra il 1943 ed il 1945, detta «Resistenza», per crescere organizzativamente, eliminare possibili avversari, ed affermarsi come forza egemone. Infatti, «Togliatti confidò […] che il PCI era “chiamato a diventare il ‘commissario politico collettivo’ dell’Italia combattente per ripulire la resistenza dalle persone non fidate e puntare sull’insurrezione socialista” perché molti reparti erano “inquinati, con la gente arrivata lì per caso, militari fuggiti dal fronte ed elementi anarchici”». «Fin dall’inizio obiettivo prioritario era stato l’egemonia sul movimento partigiano per assumerne la guida politica». Su questo si può confrontare anche Renzo De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, (pp. 69-71)

Ancora che quando «non pochi elementi partigiani (…) diedero vita alla tragica catena delle uccisioni nei confronti di ex fascisti, (…) di avversari politici, possidenti e soprattutto preti», non hanno lesinato «appoggio e simpatia per questi (…) gruppi armati», fino a giustificarne pubblicamente l’operato, con riferimento al cosiddetto «Triangolo della morte», secondo lo stesso Togliatti : «Sarebbero zone dove, sì, sono morti parecchi traditori della patria e ben sono morti, pagando con la vita i loro delitti ed il loro tradimento».

Poi i nostri "seri" compagni agli inizi della «guerra fredda», hanno svolto con piena consapevolezza il ruolo di «quinta colonna» in Italia del potere sovietico. Infatti un altro «dei miti più persistenti (…) è stato quello che interpreta la storia del PCI come una costante evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca (…). Tale approccio ha portato a sottovalutare la caratteristica fondamentale di questo partito, l’appartenenza dei suoi dirigenti ad una élite rivoluzionaria guidata dall’Unione Sovietica» (E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., p. 20), circostanza documentata dai resoconti, custoditi negli archivi di Stato e di partito a Mosca, delle centinaia di colloqui tra i dirigenti del PCI e l’ambasciatore dell’URSS a Roma, Mikhail A. Kostylev, dal quale gli italiani si recano quotidianamente «a rapporto» nella difficoltà di incontrare direttamente la leadership sovietica. «I dirigenti del PCI si sentivano in primo luogo e soprattutto rappresentanti degli interessi sovietici, anche quando rivestivano posizioni ufficiali nel governo italiano» (ibidem, p. 257).

Pertanto questi compagni “seri” compivano vere e proprie azioni di spionaggio. Addirittura, si può leggere, che, «durante gli anni della partecipazione delle sinistre al governo (…) il contenuto delle sedute (…), i problemi discussi e le decisioni prese erano spesso comunicati lo stesso giorno all’ambasciatore Kostylev da Togliatti o da altri rappresentanti comunisti del governo» (ibidem, p. 131). Non solo spionaggio, ma anche di tradimento della patria, cospirando affinché Trieste fosse lasciata a Tito (Josip Broz, 1892-1980), ovvero dando informazioni ai sovietici sulla forza militare e sull’ economia nazionali, nonché sui nostri rappresentanti diplomatici nell’URSS e nei suoi Stati satelliti, pure appartenenti ad un’alleanza politico-militare nemica.

Sempre questi compagni comunisti “seri” sono quelli  che hanno preso, fino alla implosione dell’URSS, e per il tramite di quell’organizzazione criminale che era il KGB, danari che possono essere definiti senza retorica lordi del sangue e segnati dalla fame delle popolazioni vittime del comunismo, come possiamo leggere in Vladimir Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano 1999 e in F. Bigazzi e V. Stepankov, “Il Viaggio di Falcone a Mosca”, Mondadori, 2015.

Inoltre questi presunti compagni “seri” sono quelli che hanno assistito alla edificazione del Muro ed alla sua esistenza senza fiatare, o addirittura esaltandone la funzione, e continuando fino all’ultimo ad avere relazioni più che amichevoli con i suoi custodi e gestori (dalla presenza degli stand della DDR ai festival de l’Unità, agli scambi politico-commerciali), al contributo di Ehrich Honecker alla celebrazione del compagno Berlinguer in un volume a lui dedicato dopo la sua morte. (Erich Honecker, Un uomo di pace, così voglio ricordarlo, in AA.VV., Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, Roma 1985, pp. 252-254.).

Potremmo continuare a scrivere sulla «serietà» morale dei comunisti italiani, si deve rilevare altresì come anche dal punto di vista più strettamente ideologico e politico, per dirla con Di Pietro, non ne abbiano azzeccata una, secondo le loro stesse ammissioni.  Ci avevano detto, infatti, che senza Dio e senza Chiesa l’umanità sarebbe stata libera e felice, ed ora che non possono dirlo più (semplicemente perché si è rivelato manifestamente falso), pur pensandolo ancora, da un lato cercano di strumentalizzare il Papa ed il suo magistero, dall’altro sperano di risolvere la questione trasformando la religione «religiosa» – cioè la religione che crede in Dio – in una religione umanitaria, salvo essere pronti a far scattare una bella persecuzione amministrativa e culturale, contro l’«illegalità» e l’«intolleranza», che caratterizzano l’attività e la predicazione delle chiese.

 

 

 

 

Il 20 gennaio è uscito di scena il presidente Donald Trump, mi sembra doveroso fare un bilancio della sua amministrazione. Lo ha fatto Marco Respinti sul quotidiano online Ifamnews.com/it. E Stefano Magni su Atlanticoquotidiano.it.

Respinti addirittura ringrazia il presidente Trump. “Grazie per quello che ha fatto, per quello che è stato, per le bandiere che ha issato. Grazie per averci dato la possibilità di non deprimerci, di non mollare, di non credere che la nostra battaglia per la vita umana, per la famiglia naturale e per le autentiche libertà della persona fosse irrimediabilmente perduta”. (Marco Respinti, “Grazie presidente Trump”, 19.1.21, in Ifamnews.com/it)

Certamente Trump ha fatto errori, ma di questo ne parlano e anche troppo gli altri. Per elencare quello che fatto di positivo, in questi quattro anni indimenticabili di governo, per il direttore di IFN, non basterebbe un libro.

Sintetizzando al massimo Respinti ricorda il corposo e lungo elenco dei provvedimenti, iniziative e leggi stilato dal Family Research Council. Pertanto, ci si limita a ricordare “le nomine straordinarie che Lei ha voluto effettuare alla Corte Suprema federale americana”. Ci limitiamo a ricordare il suo straordinario discorso del 6 giugno 2017 a Varsavia. (a proposito per gli appassionati di Storia, segnalo questo brillante discorso, che tra l’altro ho presentato ai miei lettori) Ci limitiamo a ricordare la sua partecipazione alla Marcia per la vita di Washington del 2020. Ci limitiamo a ricordare il suo discorso per il Mercoledì delle Ceneri del 2020. Ci limitiamo a ricordare l’albero di Natale che Lei ha voluto riaccendere in un giorno in cui il mondo intero si ferma (compresi i non credenti). Ci limitiamo a ricordare il suo straordinario proclama in onore di san Tommaso Beckett. Ci limitiamo a ricordare l’ultimo appello in extremis, a tempo scaduto, con cui il suo governo ha voluto strappare qualche migliaio di vite umane al macello. Ci limitiamo a ricordare la proclamazione, da Lei fatta, del 15 gennaio come Giornata della libertà religiosa, della settimana della libertà di educazione e il 17, il giorno seguente della Giornata della sacralità della vita umana, giusto per chiudere in bellezza. La storia ci scuserà se abbiamo ricordato qualche briciola”.

Ci sarà tempo per ricordare tutto il bene che il presidente Trump ha fatto agli Usa e al mondo intero. Tuttavia, Respinti non vuol passare per un nostalgico, un acritico fan di Trump o un filoamericano a prescindere. Chiarisce semplicemente che ancora riesce a distinguere senza confusioni il bene e il male. Ricordando Ronald Reagan (1911-2004) e il pensatore contro-rivoluzionario colombiano Nicolas Gomez Davila (1913-1994), Respinti conclude con un aforisma di quest’ultimo: “Dobbiamo vivere la militanza cristiana con buon umore di guerrigliero, non con tetraggine di guarnigione assediata”.

L’editoriale di Magni riporta ben quindici motivi per dimostrare la positività del governo di Donald Trump. Dopo aver smentito Giuliano Ferrara, che sembra ritornato alla sua antica sinistra militanza, infatti contesta quelli che raccontano che Trump abbia amministrato bene. Comunque, anche per Magni Trump sostanzialmente ha fatto cose buone. “Uno storico del futuro, sempre che la storia non sia materia monopolizzata dai progressisti, dovrà riconoscere che quella di Donald J. Trump è stata una delle amministrazioni più di successo nella storia recente degli Usa e sicuramente la migliore del primo ventennio del XXI Secolo. Lo diciamo già oggi, sperando di anticipare i tempi”. (Stefano Magni, I 15 motivi che fanno della presidenza Trump una presidenza di successo, 20.1.21, atlanticoquotidiano.it).

Il primo motivo della buona amministrazione di Trump è il miracolo economico, che ha contribuito a lanciare con la sua riforma fiscale. “Quando l’istituto Gallup ha rivolto agli americani la famosa domanda, “stai meglio oggi o 4 anni fa?”, il 56 per cento ha risposto di star meglio oggi”.

“Con Trump, - scrive Magni - che ha drasticamente tagliato le tasse ed ha rimosso l’equivalente di 250 miliardi di spesa pubblica tramite eliminazione di regolamentazioni, il Pil americano ha ricominciato a crescere di oltre il 3 per cento annuo. Era dai tempi dei Reagan che non si vedeva un simile miracolo economico. Miracolo che, in concreto, si è tradotto anche in un periodo di piena occupazione, anche a vantaggio delle minoranze ispanica e afro-americana che non avevano mai conosciuto tassi di occupazione così alti nella loro storia (e ciò spiega perché abbiano votato un candidato repubblicano con percentuali mai viste prima).

Mentre per quanto riguarda la politica estera sono innumerevoli i successi, purtroppo mai riconosciuti né dai media, né dalle istituzioni internazionali. Magni fa un elenco preciso degli accordi di pace, a cominciare di quelli in Medio Oriente, ben quattro. Si tratta di accordi storici, che potrebbero essere la premessa per arrivare a quello tra la capitale del mondo musulmano e Israele. Per non parlare dell’accordo sottovalutato col Sudan, sempre con Israele.

Ancor più importante (e sottaciuto) è l’accordo siglato fra la Serbia e il Kosovo. In 21 anni l’Ue non è riuscita nel compito. Il presidente snobbato dall’Ue perché considerato anti-diplomatico, è riuscito invece a far fare la pace economica a Belgrado e Pristina”. Magni sottolinea l’importanza strategica di quest’accordo sempre a favore di Israele. Il Kosovo, Paese a maggioranza musulmana, da qui partivano numerosi volontari dell’Isis, che rafforzavano così il fondamentalismo armato islamista.

Infine, Magni fa riferimento allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Per molti negli Usa rappresentava una decisione pericolosa, per timore che scoppiasse un “Armageddon” mediorientale. Trump ha invece avuto il coraggio di trasferirla, calcolando i rischi e i benefici. Alla fine, ha avuto ragione lui, non è scoppiato alcun “Armageddon”. Questi successi diplomatici non sono stati sufficienti a far insignire il presidente repubblicano del Nobel per la Pace, tuttavia anche questi ottimi risultati sono un valido motivo per rimpiangere l’amministrazione Trump.

Un altro risultato positivo per Magni, che non piacerà a certi opinionisti, è il ritiro degli Usa dall’Unesco.

Un’altra drastica decisione del presidente Trump è quella di troncare il finanziamento all’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché secondo Trump, “ha seguito pedissequamente le indicazioni e le informazioni fornite dal regime di Pechino sulla nuova pandemia che andava diffondendosi da Wuhan. Se i silenzi della Cina sono oggettivamente la colpa peggiore di Pechino nei confronti del resto del mondo, l’Oms è da considerarsi quantomeno complice nell’aver avallato quell’omertà. Come la scelta di dichiarare, ancora il 14 gennaio, che la nuova malattia non si trasmettesse fra umani”.

Inoltre, Magni nell’editoriale smaschera la tesi di quelli che sostengono che Trump era amico dei dittatori e quindi di aver voltato le spalle al mondo libero. Tutto falso, Trump è stato il presidente più amato dai polacchi, specialmente dopo che ha fatto l’apologia della loro lotta per la libertà ai piedi del monumento dell’insurrezione di Varsavia. Un “uomo di Putin” non avrebbe neppure sfiorato Varsavia.

“Nelle cause internazionali, Trump ha sostenuto con azioni concrete (e non solo a parole) i democratici del Venezuela duramente repressi da Maduro, capofila dei governi che hanno disconosciuto la dittatura di Maduro e riconosciuto la presidente di Juan Guaidó. È stato anche uno dei pochi leader occidentali, assieme a Boris Johnson, a difendere l’autonomia di Hong Kong, esercitando pressioni sulla Cina e imponendo nuove sanzioni”.

Altro cavallo di battaglia di Trump è stata la difesa della libertà di religione, la prima delle libertà, l’origine di tutte le altre. Anche Magni sottolinea

la militanza personale in difesa della vita del nascituro, primo presidente degli Usa a partecipare personalmente alla Marcia per la Vita. Ed ha incoraggiato gli Stati a introdurre leggi sempre più attive nella difesa del feto.

Mentre per quanto riguarda la gestione della pandemia, mentre tutti chiudevano in casa i cittadini, costringendo alla serrata le attività economiche, Trump ha cercato sempre di riaprire il prima possibili, riducendo al minimo le chiusure.

Per quanto riguarda la disoccupazione ad aprile, causa il covid, era schizzata al 18 per cento, ridotta ora al 6 per cento e anche meno in certi Stati.

“Tacciato di “negazionismo” dalla stampa di tutto il mondo libero, è però riuscito ad introdurre per primo il vaccino in tutto il mondo, favorendone una diffusione da record con un’operazione accuratamente pianificata. Attualmente, dopo Israele e il Regno Unito, gli Usa sono primi al mondo per percentuale di popolazione già vaccinata”.

A completare il quadro delle cose buone fatte da Trump, Magni ci tiene a precisare che “ha sfidato apertamente tutti i cliché del politically correct, compresa la difesa di statue e monumenti del passato americano. Non è una cosa da poco: è stato l’ultimo presidente che si è opposto ad una vera rivoluzione culturale (in senso maoista) che mira a cancellare la cultura del passato dell’Occidente. Potrebbe essere ricordato come un nostro ultimo baluardo culturale, sperando che prima o poi si palesi sulla scena politica un degno successore”.

 

 

 

Il presidente finlandese Sauli Niinistö ha affrontato la stanchezza da pandemia nel suo discorso di Capodanno, esortando i propri connazionali a trovare la forza per andare avanti, Ha detto che le difficoltà derivanti dal virus sono ancora presenti nonostante l’inizio delle vaccinazioni e, su queste ultime, ha anche detto che miglioreranno la situazione solo se se ne farà un ampio uso.

Nel suo intervento, il presidente ha ringraziato gli operatori sanitari, ma ha anche esteso le lodi all'intera nazione. Evidenziando come il Paese abbia affrontato la crisi pandemica meglio di tanti altri Paesi, Niinistö ha chiarito come si sia trattato di un risultato conseguito grazie ad uno sforzo comune. Ha aggiunto che i tempi difficili a causa del virus non sono finiti nonostante l’arrivo dei vaccini: infatti "anche se i vaccini ci hanno già dato qualche speranza, nel migliore dei casi le condizioni eccezionali continueranno per diversi mesi. Rispettare le restrizioni è l'unico modo per sbarazzarsene".

Nel ricordare gli sforzi affrontati dalla Finlandia nel dopoguerra per la costruzione dello stato sociale, Niinistö ha invitato i finlandesi ad andare avanti con uno sforzo condiviso non dimenticando di trovarsi di fronte un territorio inesplorato. Ha toccato anche l’argomento della sicurezza, sia a livello nazionale che individuale, accennando ad un recente dibattito che coinvolge considerazioni sulla sicurezza riguardante donne e bambini finlandesi rimpatriati dal campo di detenzione di Al-Hol, in Siria; si è detto anche turbato dalla recente, massiccia violazione di dati che ha coinvolto la società privata di servizi di salute mentale Vastaamo e dall'attacco informatico subìto dal Parlamento. "La nostra sensazione di sicurezza è stata inoltre lesa da nuove minacce digitali. Che si tratti di dati sanitari, o del Parlamento o dei singoli cittadini, la frase ‘violazione dei dati’ non è abbastanza energica per descrivere il problema", aggiungendo che la Finlandia deve migliorare la propria capacità di sventare minacce alla sicurezza sia nazionali che internazionali e che "non dovremmo mai riconoscere che le nostre politiche sono state ingenue", ha detto.

Coronavirus e clima, temi cruciali

Il Presidente ha annotato come il coronavirus abbia fatto sì che le persone in Finlandia adottassero comportamenti mai immaginati non molto indietro. Queste esperienze potrebbero offrire lezioni per riuscire a mitigare i cambiamenti climatici, che,sostanzialmente, sono provocati da comportamenti umani.

Il tradizionale discorso di Nuovo Anno del Presidente era stato preceduto anche da quello rivolto ai finlandesi dalla prima ministra Sanna Marin, che aveva sottolineato come il successo della reazione del popolo finlandese nell’affrontare la pandemia non sia da solo sufficiente per superare veramente la crisi, soffermandosi sulla necessità di un costante impegno comune e collettivo “per ripristinare l'economia europea oltre ad adottare misure a livello nazionale. Dobbiamo guardare oltre noi stessi. "

Ha anche ricordato che poiché le vaccinazioni contro la malattia sono appena iniziate, la pandemia non è certo esaurita e come sia quindi fondamentale che la gente continui a dimostrare moderazione, ad agire in modo responsabile ed a rispettare le linee guida messe in atto per contenere il virus.

Per la prima ministra "ci vorrà del tempo per ottenere una copertura vaccinale sufficiente per tutta la popolazione", ricordando l’impegno finanziario UE da 750 miliardi di euro attivato per aiutare gli Stati membri a riprendersi dallo shock economico provocato dalla pandemia; ed ha riferito che il Governo sta attualmente elaborando un proprio programma di recupero come parte dello strumento. Il programma si adopererà per realizzare una rapida ripresa, procedendo con le necessarie riforme strutturali nell'economia e nei servizi pubblici, con un focus su settori come la transizione verde e digitale; mercati del lavoro e vita lavorativa; competitività internazionale; e istruzione, ricerca e innovazione. Esprimendo fiducia e ottimismo nelle capacità del suo popolo, Sanna Marin ha ricordato  che "disponiamo di un sistema sanitario ben funzionante, di autorità affidabili e di una democrazia stabile, di insegnanti qualificati e competenti, di capacità digitali avanzate, di capacità di adattarci rapidamente a situazioni inaspettate e fiducia reciproca nella società, e tutto ciò ci ha aiutato a resistere alla crisi. Noi finlandesi siamo noti per il nostro coraggio, la perseveranza e la tenacia." Qualità che sono sintetizzate nella parola ‘sisu’.

Tuttavia il Paese deve comunque continuare i suoi sforzi per svilupparsi in una direzione più socialmente, ecologicamente ed economicamente sostenibile.“Anche se questo decennio è iniziato in un modo che non avremmo potuto prevedere l'anno scorso, possiamo ancora trasformarlo in un decennio di soluzioni. Ciò richiederà coraggio e capacità di lavorare insieme e resistere all'incertezza. Le stesse cose che il 2020 ha richiesto a tutti noi ”, ha concluso.

 

 

Tra qualche giorno con il giuramento del nuovo presidente Biden, si chiude il sipario delle contestatissime elezioni presidenziali americane. Dopo il clamoroso assalto al Campidoglio dei supporter del presidente Trump, che cosa resta? Certamente un Paese più che mai diviso, addirittura per alcuni sull'orlo della guerra civile. Noi che siamo in Italia e che abbiamo a cuore certi valori o meglio quei principi non negoziabili, quali riflessioni possiamo fare, dopo questi risultati elettorali. Sicuramente occorre ripartire dall'enorme patrimonio sociale, culturale e politico che sono i 74 milioni di americani di elettori repubblicani che hanno scelto di votare per Donald Trump. Quello che dobbiamo fare è di non identificarli con quei gruppi di esagitati che sono entrati dentro al Congresso, che certamente hanno sbagliato il messaggio che probabilmente volevano comunicare.

Infatti, se volevano ricordare che le elezioni per il Presidente Trump sono state “rubate” non sono riusciti nell’intento. Il messaggio che è passato è il loro disprezzo verso le istituzioni della democrazia rappresentativa e per estensione verso i corpi intermedi, in nome di una democrazia diretta, quella di Jean-Jacques Rousseau per intenderci, condita con un po’ di violenza e di folklore. Non credo fosse nelle loro intenzioni, ma così mi sembra sia stato percepito.

A questo punto lasciamo perdere per un attimo Trump, che ha certamente sbagliato alcuni passaggi e soprattutto il tono dei suoi principali ultimi interventi, anche se ha fatto tante cose buone, fuori dal politicamente corretto, subendo per quattro anni una vergognosa e indegna demonizzazione internazionale. Ora è importante guardare per Marco Invernizzi, a quei «74 milioni di americani, così come in Europa ai tanti e diversi “arrabbiati”. Proviamo a porci una domanda. Chi sono? Cosa vogliono? Contro cosa protestano? Da quanto tempo e come sono organizzati?» (M. Invernizzi, Populismo e trumpismo dopo il 6 gennaio, 11.1.21. alleanzacattolica.org).

Bisognerebbe approfondire le caratteristiche del complesso e contraddittorio fenomeno del populismo. Spesso col termine populista, vengono indicati non senza forzature, alcuni esponenti politici come lo stesso Trump. In Italia col termine populista in passato è stato indicato il cavaliere Berlusconi, ora Salvini e la Meloni. Comunque sia il termine è anche associato innanzitutto a determinati stati d’animo ed emozioni: «i populisti sono “arrabbiati”».

Dunque i populisti sia di destra che di sinistra sono “arrabbiati”. «Sono arrabbiati – secondo Invernizzi -  perché si sentono esclusi da quelle elite che dominano la maggior parte dei Paesi occidentali praticamente in tutti i campi: la politica certamente, ma non soltanto, la cultura universitaria, il giornalismo dei cosiddetti “giornaloni”, i dirigenti dei grandi colossi dell’informatica, i grandi potentati finanziari, e via dicendo. Questi “populisti” non sono pochi e anche se sono molto diversi fra loro hanno in comune il rifiuto delle attuali classi dirigenti».

Possiamo scrivere che i 74 milioni, rappresentano un'insorgenza? E' una domanda che si è posto Invernizzi. «Cioè una ribellione contro un potere che occupa tutti gli spazi, dalla cultura alla finanza passando per l’educazione, imponendo un modo di giudicare la realtà politicamente corretto, ed escludendo dal dibattito pubblico i veri e fondamentali problemi della nostra epoca, come il suicidio demografico, la mancanza di rispetto per la vita innocente, la diffusione della droga e la riduzione della famiglia a una scelta discutibile e privata?».

A questo punto è doveroso chiarire che cosa è stata l'insorgenza nella storia. Ho affrontato recentemente l'argomento. Si tratta della ribellione di una parte importante di alcuni popoli europei, in particolare contro l'invasione delle truppe napoleoniche alla fine del '700 e l'inizio dell'800.

«Essa era concentrata su pochi obiettivi: il rifiuto della coscrizione militare di massa e del pagamento di tasse esagerate e immotivate, e l’attaccamento alla fede religiosa che i napoleonici volevano sostituire con altro o comunque limitare. Allora c’era un popolo semplice e coeso sui valori fondamentali. Oggi è il contrario, negli Stati Uniti come anche in Europa. Ci sono segmenti sopravvissuti di un popolo che non esiste più come identità condivisa. Questi segmenti reagiscono, ciascuno per motivi diversi. Molti di questi motivi sono nobili e fanno riferimento a una identità perduta e a valori autentici».

Tuttavia la reazione di questi uomini e donne, definiti populisti, è gente che sono stati per decenni bersagliati da principi sovversivi che magari confusamente dicono di rifiutare, ma certamente sono penetrati dentro di loro, ma anche dentro noi tutti. «E’ difficile fare loro capire, come anche a noi stessi, che le autorità e le istituzioni vanno comunque rispettate e salvaguardate, che i corpi intermedi vanno preservati anche se spesso sono solo occasione di privilegi e di corruzione, perché il modo di intendere la vita politica da parte di queste persone arrabbiate che reagiscono, come quello della maggior parte dei contemporanei, è istintivo, brutale, semplicistico».

Allora che dobbiamo fare? Limitarci anche noi a condannare quanto è accaduto il giorno dell'Epifania e così siamo a posto con la coscienza, «contenti di stare dentro il recinto del politicamente corretto che lascia a tutti un certo spazio purché stiano all’interno e non facciano domande imbarazzanti?».

Certamente No, faremo di tutto per non farci risucchiare dentro questo sistema di potere. Attenzione però, mentre cerchiamo di non farci omologare, non perdiamo la testa, non diventiamo tifosi di una partita già persa in partenza. Continuiamo a credere in quei valori che pure sono malamente incarnati, senza disprezzare quella “rabbia” popolare, ma senza lasciarci guidare da essa nelle nostre azioni. Il fondatore di Alleanza Cattolica, amava sostenere il controrivoluzionario dev'essere estremista nelle idee, ma moderato nell'azione.

Mi fermo, l'argomento va approfondito meglio, lo farò in un prossimo intervento.

 

 

Al via il ciclo di studi promosso dalla Scuola Politica “Vivere nella Comunità”, fondata  da Pellegrino Capaldo insieme a Marcello Presicci e a numerose personalità di spicco del mondo accademico come i professori Sabino Cassese, Francesco Profumo, Paolo Boccardelli, Bernardo Mattarella e – fra gli altri – i rappresentanti di Intesa Sanpaolo, Poste Italiane, ANSA, Enel, Sace, Banca d’Italia, SKY, Ericsson, Ferrovie dello Stato e Fondazione Compagnia di San Paolo.

Il comitato di controllo della Scuola ha deciso di affidare ad una delle personalità più influenti d’Italia, il dott. Carlo Messina, Consigliere Delegato e CEO di Intesa Sanpaolo, la Lectio Magistralis dal titolo “L’importanza della formazione e l’investimento nei giovani”.

Carlo Messina, principale conferenziere della giornata, ha sottolineato la grande importanza di un’iniziativa volta ad aumentare la preparazione dei giovani: “È motivo di grande soddisfazione personale far parte di questo progetto formativo di altissimo livello, un’iniziativa dedicata ai giovani, al capitale umano e all’ampliamento delle competenze. Come Intesa Sanpaolo sosteniamo questo progetto poiché siamo profondamente convinti che la Scuola Politica “Vivere nella Comunità” potrà rappresentare un elemento di forte rafforzamento nella formazione dei partecipanti, utile per tutto il Paese”.

L’iniziativa formativa, gratuita grazie al sostegno economico delle imprese coinvolte, intende così contribuire al dibattito civile e politico, elaborando attraverso i suoi partecipanti e i docenti coinvolti, analisi sulle problematiche che riguardano il nostro Paese. L’obiettivo è quello di cercare di individuare soluzioni alle criticità connesse al mondo del lavoro, della sanità, della scuola, delle infrastrutture e dell’ambiente. Nei mesi scorsi Mario Draghi, fra gli allievi del professor Pellegrino Capaldo, è tornato a parlare dei giovani e del loro futuro sottolineando come il miglior investimento sia quello legato all’educazione e alla formazione professionale.

Su questo tema Carlo Messina, CEO di Intesa Sanpaolo, ha sottolineato come: “L’aiuto ai bisognosi, l’attenzione ai giovani e il sostegno all’economia circolare sono nel dna del nostro gruppo, rappresentano la nostra identità e noi vogliamo continuare a investire per fronteggiare l’emergenza delle persone, specie in questo momento complesso per il paese. Occorre lavorare per il futuro, progettandolo attraverso una programmazione economica e sociale che rafforzi anche la formazione e l’istruzione delle future classi dirigenti.”

Sono stati 30 i giovani individuati dalla commissione esaminatrice fra le oltre 250 candidature giunte. Il modello didattico si baserà sia su lezioni in aula sia su remoto, ciò grazie alla piattaforma Webex fornita da CISCO, partner tecnologico dell’iniziativa. 

L’amministratore delegato di CISCO Italia, dott. Agostino Santoni, ha ribadito “la volontà e l’importanza di supportare iniziative di formazione al servizio del Paese, come la Scuola Politica Vivere nella Comunità.”

Il progetto, totalmente apartitico, è nato allo scopo di rimettere al centro dell’attenzione il tema delle competenze, sia nel privato che soprattutto nel pubblico. Politica compresa. La politica che noi intendiamo è quella inerente alla gestione della cosa pubblica, la buona amministrazione che riguarda tutto il Paese e la capacità di progettare il futuro in maniera sostenibile. La nostra volontà è quella di offrire un'opportunità di alta formazione culturale e civica a giovani di talento, investendo quindi sul capitale umano del sistema Paese grazie alle aziende che sostengono la Scuola” così ha spiegato il suo fondatore Pellegrino Capaldo.

 

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