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L'inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Emilia che prende il nome di "Angeli e Demoni" vede al centro della indagini la rete di servizi sociali della Val D'Enza e del comune di Bibbiano. Secondo quanto scritto nell'ordinanza del tribunale, alcuni degli operatori dei servizi sociali avrebbero falsificato le relazioni da consegnare al Tribunale dei Minori in modo da riuscire ad allontanare i bambini dalle proprie famiglie per poi darli in affido ad amici e conoscenti.

“Verrà creata una banca dati e nascerà una squadra speciale per la protezione dei minori. Si confronterà con i ministeri, e la commissione parlamentare che verrà istituita, per avere un monitoraggio del percorso dei piccoli affidati. Tutti gli operatori dovranno sentire il fiato sul collo da parte della magistratura che farà i controlli”. Così annunciò il pentastellato ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede poco dopo la pubblicazione dell’inchiesta "Angeli e Demoni". Fu forse il primo a pronunciarsi sul caso, dando il via ad uno scontro politico che ancora non ha trovato soluzione.

il quotidiano il giornale ricostruisce la questione politica del Bibbiano : l’inclusione nel registro degli indagati di tre sindaci targati Pd ha da subito scatenato l’ira dei partiti. Dalla Lega, al Movimento Cinque Stelle, fino a Fratelli d’Italia (uno dei partiti che più ha condotto la lotta per tenere accesi i riflettori sulla vicenda), tutti si sono scagliati contro il Partito democratico, accusando i vertici per non aver preso subito provvedimenti nei confronti dei propri sindaci e di aver messo davanti il garantismo, tutelando gli indagati, ancor prima di spendere due parole nei confronti delle presunte vittime. Un silenzio, quello dei dem, che ha scatenato l’ira del leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, che in un video messaggio pubblicato sui suoi canali social arrivò a definire gli allora avversari di governo "il partito di Bibbiano". Un’appellativo incettabile per i vertici del Pd che, a suo tempo, minacciarono querele a tutti coloro che, come Di Maio, si fossero permessi di associare il nome del partito all’orrenda vicenda (di cui però i dem hanno continuato a parlare poco o nulla).

Nel frattempo, da luglio, l’ex governo in carica composto da Lega e Cinque Stelle decise di far partire una commissione d’inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori, per cercare di fare chiarezza sulle vicenda e puntare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidamenti in tutta Italia. Decisi e compatti, i due partiti avevano deciso di indagare sullo scandalo mentre, il Partito Democratico, sviava l’argomento, tanto da far infuriare l’opinione pubblica. Nei mesi successivi alla pubblicazione della vicenda, per tutte le strade d’Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle prime due parole che ricordano il simbolo dei dem. Ma, se prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sopresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. Un cambio di rotta che riaccende le polemiche.

I 58 minuti di discorso sono stati carichi di argomenti, sentimenti e anche emozioni. Dall'inizio alla fine i suoi sostenitori non hanno mancato di applaudirlo, di intonare cori e canti per lui. "Oggi qui noi abbiamo vinto", ha ripetuto più volte l'ex titolare del Viminale. E a giudicare da quante persone sono accorse a Pontida sembra proprio così.

Tra i vari temi toccati nel suo lungo discorso, Salvini ha anche parlato dello scandalo di Bibbiano. Una vergogna fatta e finita che ora il Pd cerca di insabbiare in tutti i modi. Ma quegli affidi illeciti, quegli inganni a decine e decine di famiglie non si possono dimenticare. Non si può dimenticare la sofferenza di quei bambini strappati ai loro genitori.  

Salvini non poteva stare zitto alla solita retorica di sinistra, di dem e radical chic. "Le critiche per la bimba di Bibbiano portata sul palco di Pontida - si chiede il leader del Carroccio ad Aria Pulita su 7Gold -. Ma chissenefrega. Se qualcuno ruba i bambini, io voglio gridare da papà che è uno scandalo portarli via dalle famiglie. Non era necessario avere una bambina, ma cinquanta bimbi sul palco. Non solo dall'Emilia, arrivano segnalazioni da tutta Italia. I delinquenti sono quelli che rubano i bambini".  

questo gesto, questa gioia di una famiglia che si ritrova ha scatenato la sinistra. La decisione di Salvini di far salire sul palco Greta ha sollevato una serie di polemiche. C'è chi parla di "strumentalizzazione dei bambini", chi descrive il leader della Lega per "uno che gioca sulla carne dei più deboli", chi urla "non devi fare salire i bambini sul palco di Pontida" e chi più ne ha più ne metta. Nello specifico: Carlo Calenda spara un "che gente siete voi della Lega per usare bambini su un palco?" e chef Rubio è monotono con un "sfruttare una bambina per la tua cazzo di perenne campagna elettorale dannosa e infruttuosa".  

 Così, alla fine del comizio, il leader della Lega ha chiamato sul palco alcuni bimbi. Fra questi c'è anche Greta. "Greta è questa spelendida ragazza con i capelli rossi dopo un anno è stata restituita alla mamma - ha spiegato Salvini emozionato -. Mai più bambini rubati alle loro famiglie, mai più bambini rubati alle mamma e papà, mai più bimbi come merce". Poi ha dato un cinque a madre e figlia che si sono ritrovate e tutti e tre insieme hanno gioito.  

Quello che è certo e concreto è che l'ex titolare del Viminale non cerca di nascondere un caso che deve far solo vergognare (tutti), ma ne parla. Il Pd sta zitto e attacca (Salvini) per non andare a beccare i veri responsabili di questa storia scandalosa.

Il partito di Bibbiano fa finta di non vedere il dato di fatto e addirittura arriva a dire che "gran parte delle cose sono una montatura". Andatelo a spiegare a quei genitori che si sono visti portare via i propri figli. Vediamo se trovano anche loro una montatura tutto questo scempio.

Intanto un altra questione  molto importante e come sottolinea il Giornale Il locale hotspot di contrada Imbriacola, che ha una capacità massima di 95 persone, a seguito degli approdi autonomi delle ultime 48 ore e dell’arrivo degli 82 migranti a bordo della Ocean Viking, raggiunge quota 224 ospiti. Una situazione che manda su tutte le furie in primis il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, il quale in primo luogo critica la decisione del governo di scegliere lo scalo dell’isola come porto per la Ocean Viking: “Accoglienti sì, cretini no”, dichiara sabato il primo cittadino.

In effetti gli 82 migranti scesi dalla nave dell’Ong francese Sos Mediterraée, sotto il profilo prettamente logistico vanno a gravare e non poco sul sistema di accoglienza dell’hotspot di Lampedusa, con possibili gravi ripercussioni anche per l’ordine pubblico.

Dal Viminale adesso arriva la conferma di un primo trasferimento di almeno 70 migranti, i quali nella mattinata di questo lunedì vengono imbarcati sul traghetto di linea che collega Lampedusa con Porto Empedocle.

Da qui poi, i 70 migranti saranno smistati nei vari centri d’accoglienza della Sicilia. Ma l’emergenza a Lampedusa non è comunque terminata. Da un lato infatti, permangono più di 150 migranti, con la capacità del locale hotspot ancora ben sforata. Dall’altro lato, gli sbarchi sull’isola più grande delle Pelagie proseguono.

Diversi gli approdi autonomi a partire dalla giornata di sabato: anche un singolo arrivo di un barchino con dieci persone a bordo, in questo momento può costituire un grande e grave problema per la gestione del centro d’accoglienza di contrada Imbriacola.

Si torna a proporre i ponti aerei, in modo che il trasferimento dei migranti venga agevolato e velocizzato. Anche perché la nave di linea per Porto Empedocle può accogliere un numero giornaliero limitato di migranti ed il rischio è che, partito un gruppo verso la Sicilia, a Lampedusa ne arrivi subito un altro tramite nuovi sbarchi.

Una situazione quindi vicina al collasso, a cui si sta cercando di porre un rimedio anche se, per via dell’aumento del ritmo degli approdi a Lampedusa, non è semplice far rientrare il tutto in tempi brevi alla normalità.

Intanto emergono alcune novità anche dalla Ocean Viking, ormeggiata presso il porto dell’isola dalla giornata di sabato. La Guardia Costiera domenica pomeriggio ha effettuato un sopralluogo per verificare l’esistenza di tutte le condizioni idonee per la navigazione, controlli di routine effettuati nelle scorse ore anche sulla Open Arms, ormeggiata a Porto Empedocle in quanto raggiunta da fermo amministrativo.

Questa mattina membri della Sos Mediterranée fanno sapere di essere pronti a riprendere la navigazione: “Dopo lo sbarco delle 82 persone a bordo avvenuto sabato notte e nove ore di controlli da parte della Guardia Costiera italiana, la nave sta tornando nel Mediterraneo centrale per riprendere le operazioni di ricerca e soccorso”. Lo si legge in un post pubblicato sul profilo Twitter di Medici Senza Frontiere, l’associazione umanitaria che collabora con Sos Mediterranée.

Intanto in Europa per alcuni giorni in Italia molti nei media e nelle istituzioni illusi che il combinato disposto della nomina di Paolo Gentiloni a Commissario europeo agli Affari economici e dell’ascesa al Mef del dem Roberto Gualtieri contribuisse a spostare questo perimetro verso una posizione simile a quella dell’Italia, che l’austerità l’ha patita a partire dall’era di Mario Monti e necessità una discontinuità a tutto campo. 

Ma la strada resta in salita: Gentiloni è stato commissariato, nella nuova squadra di Ursula von der Leyen, dalla nomina a suo supervisore di Valdis Dombrovskis, superfalco lettone dell’austerità. Sarà l’ex premier lettone, scrive la Stampa, che “sovrintenderà i commissari con i portafogli legati all’Economia e alla Finanza”, marcando letteralmente a uomo l’ex premier italiano e coordinando la squadra economica, seguendo direttamente la riforma del Patto di Stabilità.

Limiti sostanziali che spingono a vedere nella nomina di Gentiloni più un “premio” all’afflato europeista del governo giallorosso e alla marginalizzazione di Matteo Salvini che una concessione di reali poteri sostanziali. E lo si è visto in occasione delle prime riunioni diEurogruppo ed Ecofin a cui Gualtieri ha partecipato, nel corso delle quali le sue richieste sono andate in sostanziale continuità con quelle del predecessore Giovanni Tria: più flessibilità contabile, meno focalizzazione su concetti discutibili come l’output gap, rifiuto di qualsiasi manovra restrittiva. 

Segno che indipendentemente dall’approccio del governo italiano a Bruxelles, il muro contro muro è di difficile superamento. Nonostante le dichiarazioni d’intento coraggiose e battagliere, appare evidente che anche la nuova Commissione terrà il “perimetro” dell’austerità molto vicino a quanto desiderato dai Paesi nordici paladini del rigore, concedendo forse qualche avanzata solo per rispondere alle difficoltà economiche della Germania.

Sono rari i libri che riescono a coniugare gli avvenimenti, i fatti politici, o addirittura la cronaca, alla micro e alla macro Storia. Ci riesce Paolo Mieli, giornalista, ma soprattutto storico, nel suo libro, «Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto», Rizzoli (2017).

Mieli nel testo ripercorre la vita del nostro paese attraverso una serie di storie, a partire dal Risorgimento, dai primi anni del nuovo Regno d'Italia, dalla Grande Guerra, il fascismo, il dopoguerra, con i tanti e vari governi balneari democristiani, il centrosinistra, l'opposizione anomala del partito comunista italiano. Fino a trattare vicende oscure di cronaca giudiziaria come il caso Montesi.

Naturalmente io mi soffermerò su alcuni aspetti storici che ritengo meritano maggiore attenzione. Paolo Mieli nella sua narrazione storica si avvale di una serie di studiosi e citando Giovanni Sabbatucci, afferma una tesi politica a cui pare legato, in Italia, «le forze politiche, anziché andare al governo dopo aver vinto le elezioni, vincono le elezioni dopo essere andate al governo (sfruttando con mezzi leciti o illeciti a seconda dei casi, le opportunità offerte dal potere) diventerà uno dei caratteri perenni e una delle anomalie maggiori del sistema politico italiano». E' stato sempre così, tranne nel ventennio mussoliniano.

Nella Ia parte del testo, dall'unità al Fascismo, Mieli racconta come si è formato il nuovo Regno d'Italia e l'Unità del Paese. Alle prime elezioni del 1861, gli aventi diritto al voto furono 420.000, andò a votare la metà, l'1% degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di 200 voti per mandare a Torino un deputato; in uno solo 89. Praticamente la nostra democrazia viene costruita da una piccola élite. E peraltro nasce con un vizio d'origine: l'esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX. In questo modo il nascente Stato borghese liberale, nasce debole.

Per cinquant'anni, nella fase iniziale della storia d'Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisitema». In pratica sono i «neri, come li definivano i liberali». A questi si aggiungevano i «rossi, cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l'ossatura del Partito socialista[...]».

Pertanto conclude Mieli, l'”impossibilità dell'alternanza” nella politica italiana non è nata nella metà del Novecento, emergeva già nel secolo prima, all'inizio dell'esperienza unitaria.

A proposito dello studio della Storia, Mieli lamenta un oblio di questo studio. A partire dalla scuola italiana. Sostanzialmente per lo storico, si «andò affermandosi un modo di insegnare la storia assai poco problematico che puntava “piuttosto sull'oblio che sulla presa di coscienza”, dove imperavano le “ricostruzioni di comodo del passato”».

In pratica molto della nostra Storia è stato rimosso, ecco perché secondo Mieli, hanno avuto successo di pubblico i testi come il bestseller Terroni, di Pino Aprile e il fortunato Il sangue del sud di Giordano Bruno Guerri, che hanno tolto il velo agli aspetti più controversi della conquista del sud. Mieli si ferma a questi testi, che hanno un taglio giornalistico,  ma ce ne sono tanti altri che a partire dagli anni '90, hanno fatto giustizia sui veri fatti accaduti nel nostro meridione. Tanti autori di matrice cattolica controrivoluzionaria hanno raccontato la vera storia del Risorgimento, a partire da Carlo Alianello per arrivare ad Angela Pellicciari, che per la verità viene citata.

Paolo Mieli dà ampio spazio allo storico Massimo Viglione con 1861:Le Due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile. Il testo è un utile manuale, che contesta il Risorgimento e l'Italia Unita. Ma Mieli fa riferimento anche al volumetto del cardinale Giacomo Biffi, L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni 1861-2011.

Viglione, è convinto che l'Italia nonostante sia un insieme di popoli, ha un elemento che li unisce, è quello religioso e la memoria più o meno sentita dell'eredità imperiale di Roma. Scrive Aldo Schiavone in (Italiani senza Italia), la Chiesa, «si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi alle diverse epoche, le torri e i campanili d'Italia». Pertanto, l'istituzione religiosa ebbe dunque, «la ventura di rimanere l'unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana […]. Finì con l'assumere perciò il ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale – o almeno di velo – contro l'invadenza straniera».

Sicuramente secondo Viglione, la religione ela Chiesa, «erano di fatto non solo l'anima dell'italianità, ma anche l'unico concreto elemento unificatore delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico - per Viglione – ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale e statuale di tali popolazioni». Invece sappiamo come è andata, il Risorgimento, cioè la “Rivoluzione italiana” è stato un movimento sociale contro la Religione Cattolica e contro la Chiesa.

Non solo ma l'unificazione avvenne senza rispettare i diritti internazionali dei vari legittimi Stati preunitari a partire del Regno delle Due Sicilie. Tutti Stati conquistati con l'inganno e con la violenza. Pertanto secondo Galli della Loggia, l'Italia è l'unico Paese d'Europa, la cui unità nazionale e la liberazione dal dominio straniero sono avvenuti in aperto feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale.

Mieli accenna alla misteriosa morte di Ippolito Nievo, nel naufragio misterioso del piroscafo Ercoli. Nievo che aveva partecipato all'impresa dei Mille, auspicava un'alleanza con i preti per cambiare la società italiana.

Mieli fa riferimento anche alle insorgenze dei popoli italiani contro l'invasione napoleonica dell'Italia. Un tema trascurato per decenni, anzi come più volte ha detto Giovanni Cantoni, le insorgenze sono una pagina di Storia, letteralmente “strappata”. E ora ripresa, soltanto dopo gli studi che sono stati fatti all'interno di Alleanza Cattolica, con l'Istituto per la Storia delle Insorgenze (ISIN).

Gli insorgenti, la vera e unica resistenza fatta dagli italiani contro un esercito straniero, lasciarono sul terreno oltre centomila morti. Dall'altra parte c'erano gli agguerriti eserciti francesi, sostenuti da qualche migliaio di giacobini italiani. Tempo fa visitando la cittadina di Susa, sono entrato anche nel Palazzo Comunale, tra le tante targhe, alcune erano inneggianti agli eserciti francesi, visti come liberatori, manifestavo il mio sbigottimento e disappunto con dei dipendenti di quel Comune).

Tuttavia lo storico Mieli riconosce tutti questi fatti, le insorgenze e poi come venne fatta l'unità del Paese, facendo i nomi dei protagonisti di quegli avvenimenti. Anche se lui da laico, non riconosce che probabilmente dietro al disegno unificatore dei Savoia e dei rivoluzionari italiani come Garibaldi e Mazzini, c'era la Massoneria, ma c'era anche un disegno «di protestantizzazione dell'Italia». Tuttavia nel testo Mieli fa riferimento alla «guerra legislativa» contro la Chiesa e qui non può non citare la Pellicciari. Inoltre nelle citazioni dei diversi storici, Mieli fa il nome dello zuavo irlandese Patrick Keyes O'Clery, che ha ben raccontato, essendo presente, il risorgimento nel suo testo La Rivoluzione Italiana, pubblicato in Italia soltanto dalla casa editrice Ares. 

Nel contesto del Risorgimento, una scheda è dedicata ai numerosi conflitti tra il liberale Cavour e il repubblicano Mazzini e tanti altri intrighi istituzionali del nuovo Stato.

Passo alla scheda sul “paradosso della Grande Guerra”. La 1 guerra mondiale costò all'Europa 15 milioni di morti, su un totale di 120 milioni di maschi adulti mobilitati. I feriti furono più di 34 milioni (tra cui 8 milioni di mutilati e invalidi) e 11 milioni di prigionieri, decine di migliaia dei quali morti nei campi di prigionia. Tra i prigionieri 600.000 circa furono italiani, la metà dei quali caddero nelle mani del nemico dopo la disfatta di Caporetto. Per Mieli, una cifra altissima rispetto a quella degli altri Paesi. In guerra. Tra l'altro questi prigionieri per il governo italiano furono considerati come disertori.

Dopo queste gigantesche cifre, ha un grande significato la frase del papa di allora Benedetto XV che definì la 1 guerra mondiale, una inutile strage.

Anche qui Mieli prende in esame i movimenti politici degli interventitsti e quelli che non volevano la guerra. Secondo il giornalista Ugo Ojetti la guerra fu «come una liberazione da una lunga febbre che non voleva finire». Per Mieli questo conflitto venne presentato dal governo «come l'ultima campagna del Risorgimento che avrebbe consentito finalmente a tutti gli italiani di far parte di un un unico Stato nazionale». Anche se il governo che portò alla guerra avevo poco a che fare con gli ideali romantici di Mazzini e compagni. La guerra nonostante il tradimento del patto con gli austrotedeschi, per alcuni doveva dimostrare al mondo l'unità del paese, la grande potenza.

E invece, «l'Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione».

In parte erano divisioni ideologiche che durarono a lungo fino a quando la Regia marina nel giorno di Natale del 1920, bombardò Fiume occupata dai legionari dannunziani.

Una guerra che colse gli italiani impreparati, una mobilitazione degli eserciti con forti ritardi. Un esercito italiano «dipinto come la parte migliore del paese, una comunità salda e disciplinata, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti». Tutte frottole e propaganda di regime. Peccato come fanno notare diversi storici, che questo esercito non aveva vinto mai nessuna battaglia sul suolo europeo e in Africa ad Adua aveva subito la peggiore sconfitta di un esercito bianco in Africa.

Del resto Cadorna, il capo di Stato maggiore e comandante sul campo era convinto «che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari». Sappiamo come Cadorna cercò di risolvere il problema, con fucilazione immediata per chi tentenna nei combattimenti. Anche se poi questi stessi soldati seppero dare il meglio di se stessi nelle varie battaglie che affrontarono sul terreno brullo del Carso o sulle cime dei Dolomiti. .

Mieli tra le tante osservazioni fa notare la scarsa partecipazione alla guerra degli studenti universitari. Anche Mieli riporta i casi di ufficiali che ostinatamente guidavano i propri soldati a dei veri e propri massacri come quello del colonnello Mario Riveri al forte Basson, dove morirono 1100 uomini su 2800.

Altro macabro particolare della grande guerra è l'impazzimento di molti ragazzi rimasti segnati per tutta la vita. Di questo se ne è occupata una studiosa abruzzese, Annacarla Valeriano, in uno straordinario libro, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931). Il libro nasce dalle annotazioni dello psichiatra  veneto Marco Levi Bianchini, futuro direttore del manicomio abruzzese. Secondo la Valeriano emergeva «la pervasività della violenza a cui i fanti erano esposti e che avrebbe costituito una delle caratteristiche più peculiari del conflitto: una 'brutalizzazione' dello scontro che non colpì soltanto coloro che combatterono in prima linea ma si estese anche nelle popolazioni civili, provocando ferite nel corpo e nell'anima […] Per la Valeriano - le conseguenze psichiche della violenza si manifestarono sotto forme diverse:i nuovi stimoli derivanti dalla 'guerra di luci e di scoppi terribili' furono infatti smaltiti dalla psiche dei soldati attraverso una serie di reazioni che continuarono a dispiegare per lungo tempo i loro effetti».

Altri studiosi provarono a definire queste nevrosi dei militari della grande guerra. L'azione logoratrice e depressiva della vita nelle trincee avevano provocato un ottundimento del senso della vita e del pericolo in coloro che erano stati nelle zone di combattimento.

Passando alle schede sul fascismo Mieli descrive il Tribunale fascista, l'Ovra, che amministrò la giustizia fino al 25 luglio 1943. «Non si può dire che il tribunale di Mussolini - osserva Mimmo Franzinelli in Il Tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943) – sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3112 imputati contro 7581 prosciolti; pronunciò settantasei condanne a morte delle quali ne saranno eseguite cinquantotto, in gran parte contro i “terroristi slavi”, come già ben documentato da Marina Cattaruzza in L'Italia e il confine orientale (1866-2006) e da Maria Verginella in Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena. Peraltro tutti i giudici che avevano fatto parte dell'Ovra furono amnistiati in tempo di record e qualcuno ebbe un ruolo nella nuova repubblica.

Interessante la scheda, «strani protagonisti della Rsi». Qui Mieli oltre a fare l'elenco degli storici che hanno descritto gli anni della repubblica di Salò, racconta alcuni episodi che tra l'altro non conoscevo. Intanto scrive che certa storiografia che ha negato dignità a coloro i quali militarono dalla «parte sbagliata», e cioè i repubblichini, dimostra grandi limiti. Non si può ridurre «l'ultimo fascismo alla semplice e unica categoria interpretativa della 'barbarie consumata da un manipolo di sanguinari'».

Mentre cita positivamente chi ha studiato il fascismo a cominciare da Renzo De Felice, fino ad arrivare a Giampaolo Pansa e quindi per ultimo al versante reducistico Giorgio Pisanò.

La scelta di Salò, scrivono Avagliano e Palmeri, fu per molti giovani e perfino adolescenti «una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime fascista».

A questo punto Mieli elenca i vari futuri personaggi dello spettacolo che hanno aderito alla Rsi, che hanno avuto un ruolo attivo, anche se alcuni, successivamente hanno preso le distanze da quella scelta. Si passa da Giorgio Albertazzi a Raimondo Vianello, forse l'unico che ha raccontato la sua scelta con realismo.

Mieli fa affidamento a L'Italia di Salò: 1943-1945, che racconta decine di pagine interessanti al primo fascismo clandestino, dopo che l'Italia fu liberata dagli americani, proprio al Sud. C'è una rete clandestina dietro le linee nemiche, movimenti spontanei, formati prevalentemente da giovani. Hanno inizio nel luglio del 1943 in Sicilia. La prima formazione censita è «Fedelissimi del Fascismo», «Movimento per l'Italianità della Sicilia», fondata a Trapani da Dino Grammatico (futuro deputato regionale del Msi) e Salvatore Bramante. In queste formazioni clandestine si distingue anche una giovane donna, Maria D'Alì, definita la «Giovanna D'Arco della Sicilia». A Messina c'è Salvatore Claudio Ruta, leader di un gruppo di giovani fascisti. Ci sono altri nomi e soprattutto episodi di resistenza, di manifestazioni contro il nuovo governo alleato.

Mieli ricorda un movimento nato in Sicilia di protesta contro la leva militare a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatisti e comunisti. Il loro slogan era «Non si parte», per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro i nazi-fascisti. Una strana alleanza, simile a quella del 1866, quando ci fu la rivolta del «Settemezzo» A Palermo e in tutta la Sicilia contro il governo del nuovo Regno d'Italia, dei Piemontesi. Anche allora borbonici, garibaldini, anarchici, cattolici scesero in strada per protestare.

Mieli racconta delle resistenze avvenute anche in Sardegna, in Calabria e a Napoli dove era attivo il principe Valerio Pignatelli di Cerchiara, che ha combattuto su più fronti contro il comunismo.

Nella mia presentazione io mi fermo qui, potrei continuare, interessante la scheda delle “Tre vittorie della Destra”, nel Novecento: la marcia su Roma del 1922; il successo elettorale della DC, del 18 aprile 1948; il successo elettorale del 27 marzo 1994 di Silvio Berlusconi. Sarà un po' forzato l'accostamento dello storico giornalista, ma ci sono tanti altri avvenimenti che Mieli propone nel libro, a cominciare dalla Repubblica bloccata del secondo dopoguerra.

Anche qui sono tanti i nomi di politici, protagonisti della storia della politica italiana, la fanno da padroni i democristiani e i comunisti. Il testo di Mieli si può leggere scegliendo tra le varie schede che propone. Sarebbe interessante fare riferimento ad altri episodi che mi hanno colpito maggiormente. Un ultimo accenno voglio farlo: l'episodio del vescovo di Reggio Emilia, monsignor Beniamino Socche, del 7 luglio 1960, collegato ai disordini contro il governo Tambroni. E poi quelli riguardanti l'opposizione anomala del Pci, con tutti i travagli politici interni. Anche Mieli racconta i cosiddetti “fatti di Ungheria” del 1956, come furono vissuti dai comunisti italiani.

 

Come è a tutti noto, il Segretario della Lega, Matteo Salvini, nel grande comizio di Milano del 18 maggio 2019, ha invocato la Madonna, i Santi Patroni d’Europa, San Benedetto da Norcia, i Santi Cirillo e Metodio, Santa Brigida, Santa Teresa e Santa Benedetta della Croce; infine ha baciato la Corona del Rosario.

Mi fossi trovato in piazza del duomo lo avrei sicuramente applaudito.

Questo mio entusiasmo contrasta – per diametrum – col disappunto di chierici e prelati (v. pag. 9 di “Avvenire”, 20-V-2019) che possono riassumersi nelle parole di “Famiglia Cristiana” del 26 maggio 2019: “Quelle del ministro degli Interni sono astuzie da marketing elettorale per carpire voti di chi abbocca. Ma chi ha fede non può che indignarsi. Può darsi che la “gloriosa” Rivista dei Padri Paolini abbia le sue buone ragioni, ma io e molti altri frequentatori di chiese e che, forse indegnamente, crediamo di avere ancora fede, abbiamo “abboccato” e non ci siamo “indignati” per i motivi che cercherò di esporre qui di seguito.

Sentendo le parole di Salvini, il mio primo sentimento è stato un misto di meraviglia e sbalordimento. Mi sono subito chiesto come abbia potuto un giovine, cresciuto a pane, telefonini, canzonette e discoteca, in una società avviata al paganesimo e al capovolgimento dei valori, avendo egli frequentato scuole del dopo-Sessantotto imbevute di marxismo relativista, con professorini più spesso presuntuosi e saccenti, impunemente liberi di raccontare ai loro ignari alunni mezze verità e menzogne complete sul Medio Evo cristiano che non hanno studiato, sulla Riforma Cattolica, l’Inquisizione, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, il Risorgimento, il Comunismo, il Fascismo, l’Antifascismo… etc. etc., mi sono chiesto come abbia potuto questo “quarantenne” quagliare un tal finale di comizio addirittura nel centro della città più “politica” e, quindi, più “laica” d’Italia e magari d’Europa. Resta un mistero che solo lui può spiegare!

Certo, soprattutto nel clima di laicismo imperante, dove i segni del sacro sono quasi scomparsi, è legittimo pensare con “Famiglia Cristiana” che egli abbia fatto un “uso strumentale della religione”; però, tra le tante cose che si possono dire su un fatto così fuori della “norma”, ciò che colpisce in quest’“uso” è la scelta della religiosità più tradizionale e, pertanto, mal sopportata da tanti chierici “neo-modernisti”, il Rosario! Ora, due sono le cose: o Matteo è un prestigiatore diabolico come il famoso/famigerato Cagliostro palermitano, oppure il suo gesto, per quanto irregolare ed estemporaneo, è comunque sincero e allora, quanto meno, deve far riflettere. E, infatti, forse proprio la progressiva scomparsa in Europa del sacro, osteggiato e smarrito soprattutto in questi ultimi 50 anni, e il conseguente deserto può avergliene fatto nascere il desiderio, la ricerca e la rivalutazione; da qui gesti e parole anche plateali, magari provocatori, come quelli del “nostro” in piazza a Milano. 

In questa ricerca e rivalutazione del “sacro” egli si è calato nel “popolo basso” che, nonostante l’enorme pressione degli intellettuali “primi della classe”, è e resta cattolico e fedele e tale ancora si sente nel fondo del cuore, legato ai “segni” e ai valori di sempre: per intenderci, è quel popolo che vuole il Crocifisso nei luoghi pubblici; che insorge quando qualcuno proibisce il presepe nelle scuole; che non si vergogna di segnarsi la Croce alla fronte passando davanti a una chiesa; che dice ai testimoni di Geova, perlustratori la mattina di domenica delle strade presso le chiese, “sono cattolico e sto andando a messa”; è quello che augura “Buon Natale” invece dell’incolore e inodore “buone feste” o – peggio – “auguroni” per non si sa bene chi e che cosa, “Buona Domenica” e non “buon weekend” come molti vanno scimmiottando nella lingua dei padroni del mondo…

Quisquiglie e piccoli pensieri di me che sono nato nella “prima metà del secolo scorso”? Non nego che lo siano. Matteo Salvini, però, nonostante la feroce propaganda contraria, ha intercettato e convinto proprio questo popolo “conservatore” non ancora completamente edotto  e corrotto dal neo illuminismo e che fa Resistenza magari passiva e senza averne piena coscienza; egli ha ignorato di slancio le élite che compaiono nelle televisioni e tentano di ammaestrarci come all’asilo e ci fanno piangere o ridere a comando come pupi su un palcoscenico e sparano parole vane e le scrivono sui giornali.

È probabile che la scoperta della religiosità popolare “salviniana” sia la cosa che, in fondo, fa più paura a costoro; più del razzismo inventato e del fascismo riscoperto alla vigilia di ogni elezione ma improponibile perché sepolto nel 1945 con la sconfitta dell’Italia, anche se contro il suo fantasma gruppi di sprovveduti, spinti da giornaloni come “Repubblica”, marciano nelle strade e cantano “bellacciao”. A coloro, invece, fa paura il Salvini che si reca a Verona, al Congresso della Famiglia naturale, che apertis verbis – e oggi bisogna avere coraggio per affermarlo! – dice che il bambino per nascere e crescere ha bisogno di una mamma e un papà possibilmente veri; è quello che in Parlamento blocca la “legge” contro la cosiddetta “omofobia” ché, se passasse (e passerebbe d’un fiato coi “5 Stelle” e i post-comunisti del PD di Zingaretti malauguratamente uniti!), chiuderebbe a colpi di Codice Penale la bocca a noi “medioevali” che osiamo sostenere essere Famiglia solo quella naturale formata da uomo-padre, donna-madre e figli; è il Salvini che è contro  il “gender” che tenta di trasformare la sessualità dei nostri ragazzi e la compravendita dei corpi delle donne mediante l’“utero in affitto”.

Ricordo agli immemori che tutte queste “belle” cose sono parte primaria dei programmi di partiti come il PD  e passano sotto il nome innocuo e accattivante di “diritti civili”. È questo popolo nascosto e magari confuso ma ancora naturaliter “religioso” che il giovine Salvini ha intercettato e che si oppone a quel mondo – per intenderci – rappresentato e riassunto dall’emblematico cartello che una signora senatrice del nostro Parlamento non s’è vergognata di brandire proprio a Verona: “Dio, patria, famiglia: che vita de mer…!

Spiace che “Famiglia Cristiana” stenti ancora ad accorgersene e pubblichi interviste edulcorate a Zingaretti neo-comunista, lettere di lettrici dove Matteo viene tranquillamente definito “bieco essere”, di donne spaventate per un fascismo prossimo a marciare su Roma sol perché il Ministro degli Interni a Forlì ha comiziato dallo stesso balcone da cui 90 anni prima aveva parlato il...Duce! Non così noi, fedeli che frequentiamo le chiese e da una vita teniamo la Corona in tasca per ogni evenienza e preghiamo col Rosario di San Pio V (quello di Lepanto, 7 Ottobre 1571!) e non abbiamo mai perduto una messa, una processione, un pellegrinaggio… Sì, sì, lo so che il buon cristiano “lo vedi se dà da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, se ha occhi per il dolore e le sofferenza degli altri” ci ammonisce il buon vescovo di Noto, mons. Antonio Staglianò, siciliano come me, su “Avvenire” (20-V-2019). Io tutto questo, coi miei limiti, mi sono sempre sforzato di farlo e, probabilmente, in privato lo fa anche Matteo che, però, essendo politico con gravi responsabilità pubbliche, deve dar conto al popolo italiano e, nel caso dell’emigrazione, costringere l’Europa ad assumersi le sue responsabilità.

Molti di noi, in questa evenienza, abbiamo comunque dato fiducia a  Matteo che, per quanto – dati i tempi – non possa essere uno stinco di santo e sia “peccatore” come lui stesso si definisce, sembra avere iniziato a studiare e a capire la realtà delle “due città” in irrimediabile contrasto tra loro e, di conseguenza, s’è dato  coraggio e ha gridato parole inusuali ed estemporanee ma sicuramente e  finalmente comprensibili anche dai “poveri” come me!

 

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha respinto il ricorso presentato dalla comandante della nave, Carola Rackete e dai 42 migranti a bordo, che chiedevano lo sbarco in Italia. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini : "confermata la scelta di ordine, buon senso, legalità e giustizia dell'Italia: porti chiusi ai trafficanti di esseri umani e ai loro complici". Possibile ora che - come da lei stessa annunciato - il capitano decida di fare rotta verso il porto di Lampedusa, andando incontro alle sanzioni previste dal decreto sicurezza bis: multe fino a 50 mila euro e confisca dell'imbarcazione. I ricorrenti avevano invocato gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, chiedendo di essere sbarcati subito con un provvedimento provvisorio d'urgenza per poter presentare una richiesta di protezione internazionale.

La Corte ha chiesto informazioni al Governo ed alla ong, ha esaminato le risposte ricevute e nel pomeriggio è arrivata la decisione: non ci sono gli estremi per indicare all'Italia di autorizzare lo sbarco; Roma deve tuttavia "continuare a fornire l'assistenza necessaria alle persone vulnerabili a bordo a causa della loro età o condizioni di salute". Le misure provvisorie nei confronti degli Stati, sottolinea poi la Corte, vengono adottate "in via eccezionale", quando "i richiedenti sarebbero esposti - in assenza di tali misure - a rischio reale di danni irreparabili". 

Salvini in conferenza stampa al Viminale promette: "la Sea Watch in Italia non ci arriva, possono stare lì fino a Natale. In 13 giorni se avessero avuto veramente a cuore la salute dei migranti sarebbero andati e tornati dall'Olanda". L'atteggiamento della ong, sottolinea, "è un'evidente provocazione politica. Stanno usando da 13 giorni esseri umani per scopi politici, sono personaggi inqualificabili". Critiche arrivano da sinistra. 

il respingimento da parte del Tar del ricorso contro il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane da parte del Viminale. Il secondo è arrivato ieri con la bocciatura da parte della Corte di Strasburgo del ricorso, sempre di Sea watch, contro l'italia che ha detto "no" allo sbarco. L'ong però non fa passi indietro e così ha deciso di sfidare in modo aperto Salvini. La "capitana" dell'imbarcazione ha dichiarato "guerra" al Viminale: "Forzerò il blocco a costo di perdere la nave". Già perché con il decreto Sicurezza Bis scatta immediatamente la confisca dell'imbarcazione e una multa salata per la ong. E così Sea Watch si prepara al "peggio". L'Ong infatti ha intenzione di avviare una raccolta fondi per pagare l'eventuale multa del Viminale in caso di ingresso nella acque italiane. E così è partita già la campagna: "Se il nostro capitano Carola porta i migranti soccorsi in un luogo sicuro, come previsto dalla Legge del mare, deve affrontare multe salate in Italia. Aiuta a difendere i diritti umani e dona al fondo di assistenza legale Sea Watch", si legge sui profili social dell'ong.

E ancora: "Se il nostro capitano Carola segue la legge del mare, che le chiede di portare le persone soccorse sulla SeaWatch3 in un porto sicuro, potrebbe affrontare pesanti sentenze in Italia. Aiutate Carola a difendere i diritti umani, donate per la sua difesa legale". Insomma il piano per forzare il blocco sarebbe già pronto. La sfida finale al divieto imposto dal Viminale.

La nave della discordia è lunga 55 metri e ogni volta che viene sequestrata cambia comandante, l'unico a venire indagato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La mossa furbesca evita l'aggravante della reiterazione del reato. Anche questo è un costo legato alle spese legali e agli ingaggi del capitano, ma ci sono altre sorprendenti spese.  

Il bilancio dell'Organizzazione non governativa si scopre che per Sea Watch 3 sono stati sborsati oltre 31mila euro di spese legali. Nel 2018 la nave, a parte le paghe degli equipaggi, è costata 784.210,41 euro, in pratica il 55,9% dei costi totali. Una cifra ampiamente coperta dalle donazioni, che lo scorso anno sono arrivate, fino al 31 ottobre a 1.797.388,49 euro. Sea Watch 3, è costata nel 2018 oltre un milione e mezzo di euro sommando i lavori in cantiere dell'anno prima e l'acquisto di due gommoni di soccorso.

le spese per gli equipaggi, oltre al personale a Berlino e Amburgo di 304.069,65 euro. Non poco per aver «soccorso» in mare, come sostiene l'Ong tedesca, 5mila persone nel 2018, anche se il numero sembra un po' alto. Lo scorso anno la nave dei talebani dell'accoglienza è rimasta sotto sequestro a Malta per quattro mesi.

Una voce riguarda i «viaggi e voli» probabilmente degli equipaggi e degli attivisti di Sea Watch legati alla nave, che ammonta a 61.980,36 euro. Fra assicurazione, ormeggi e tasse portuali i talebani dell'accoglienza hanno speso quasi 100mila euro. I viveri per equipaggio e migranti sono costati 36.456,76 euro, le telecomunicazioni, comprese quelle satellitari, ben 22.661,23 euro. Le voci maggiori sono il carburante diesel costato circa 80mila euro, ma poteva gravare ben di più se Sea Watch non fosse stata sequestrata per un terzo dell'anno dai maltesi. Anche le «manutenzioni e riparazioni» hanno inciso per oltre 77mila euro. La seconda voce più ingente, 102.172,57 euro, riguarda «fornitori di servizi esterni» non meglio specificati. E poi l'esborso più alto, poco più di 192mila euro, si riferisce al mantenimento del certificato di classe di navigazione e ai diritti di garanzia di Sea Watch 3.

Come sottolinea il quotidiano il Giornale gran parte delle voci di bilancio del 2018 sono provvisorie ovvero calcolate fino al terzo trimestre dell'anno. Oltre alla nave i talebani dell'accoglienza sostengono due aerei delle Ong che decollano da Lampedusa. «L'operazione Moonbird», dal nome di uno degli aeroplani di ricognizione di Sea Watch, è costata nel 2018 262.435,00 euro. La voce più alta, 162.360,00 euro, riguarda il carburante e le tasse aeroportuali. Non è chiaro quanto e chi paghi i piloti, che non volano certo gratis. Nel 2017 l'Ekd, una potente federazione di una ventina di chiese protestanti e luterane tedesche, hanno «sostenuto l'acquisto di Moonbird con 100mila euro» si legge nel bilancio di Sea Watch. Non solo: «i costi del progetto dal 2018 al 2020 sono coperti» dalla federazione evangelica. Peccato che i migranti individuati dagli aerei della Ong e raccolti da Sea Watch, come gli ultimi a bordo della nave al largo di Lampedusa, alla fine sbarchino sempre in Italia e non arrivino quasi mai in Germania.

Nelle pieghe del bilancio dei talebani dell'accoglienza tedeschi scrive il Giornale spicca la voce «team italiano», che costa 62.815,17 euro l'anno. L'obiettivo è un vero e proprio lavorio di lobbyng, a cominciare dal progetto Mediterrana, «in modo tale che i politici, a livello nazionale e internazionale, ascoltino le nostre richieste» per aprire le porte ai migranti.

Intanto l’amministrazione Trump ha avviato una guerra commerciale con Pechino mentre ha mostrato una certa insofferenza per l’Ue a guida tedesca e, in particolare, per il surplus commerciale di Berlino: il presidente Donald Trump, inoltre, preferisce di gran lunga trattare con i singoli Stati che con l’intricata casta di burocrati dell’Ue. Da pragmatico, ha perfettamente compreso che a tirare le redini dell’Unione europea sono Germania e Francia. 

Tutti incolpano Trump dell’attuale crisi delle relazioni transatlantiche ma, in realtà, anche con un’eventuale vittoria di un democratico moderato come Joe Biden, le tensioni rimarranno. Gli Usa continueranno a criticare il comportamento della Germania e le sue ambizioni imperiali (economiche) sul resto del continente ma, soprattutto, si concentreranno sempre di più sulla sfida alla Cina e al contenimento di Pechino in Asia. Che The Donald sia il prossimo inquilino della Casa Bianca o meno  

Nel complesso, le relazioni fra Ue e Washington sono peggiorate e i leader europei come Angela Merkel e Emmanuel Macron sperano in cuor loro che il prossimo presidente degli Stati Uniti sia il democratico Joe Biden, ex vicepresidente di Obama. All’inizio del 2019, alla vigilia della Conferenza di sicurezza di Monaco, Biden ha inviato un messaggio rassicurante ai politici, diplomatici e leader militari europei preoccupati per il disimpegno americano: “Torneremo”.

Come nota Foreign Affairs, la crisi dei rapporti transatlantici non è iniziata con Trump. Obama annunciò il già citato “Pivot to Asia”, cancellando i piani per costruire un sistema di difesa antimissilistica degli Stati Uniti in Polonia con stazioni radar nella Repubblica Ceca e, successivamente, ritirando due brigate dell’esercito statunitense dall’Europa. Le cose cambiarono con il golpe di Euromaidan in Ucraina e la successiva annessione della Crimea da parte della Russia.

Nel gennaio del 2018 il Pentagono ha svelato la nuova “strategia di difesa nazionale” che definisce la Cina e la Russia le due maggiori minacce agli interessi diretti degli Stati Uniti. Una svolta epocale che ha segnato un cambiamento profondo nella politica di difesa degli Usa dopo la War on Terror inaugurata dall’amministrazione di George W. Bush post-11 settembre 2001. E tra le due, Pechino è percepita dall’élite politica di Washington come la minaccia numero uno che la superpotenza statunitense deve fronteggiare.

Secondo il politologo Stephen M. Walt, “la politica estera e di difesa degli Stati Uniti si concentrerà principalmente sul contrasto alla Cina. Oltre a cercare di rallentare gli sforzi della Cina per ottenere vantaggi in una serie di tecnologie emergenti, gli Stati Uniti cercheranno anche di impedire a Pechino di stabilire una posizione dominante in Asia”. Tuttavia, afferma, “mantenere la posizione degli Stati Uniti in Asia non sarà facile, perché le distanze sono enormi, gli alleati asiatici dell’America vogliono preservare i loro legami economici con la Cina, e alcuni di questi alleati non si amano molto”.

 

 

 

L'appuntamento è per il 7 luglio, una data che - a vedere anche un sondaggio pubblicato dopo la chiusura dei seggi, che assegna ai conservatori fino al 36,5% - potrebbe invece vedere il successo di Kyriakos Mitsotakis, leader di Nea Dimokratia. Ovvero, il ritorno al potere di una delle grandi famiglie politiche greche, quella del premier Konstantinos Mitsotakis, suo padre, che governò la Grecia dal 1990 al 1993.

A distanza di una settimana dalle elezioni europee, gran parte di cittadini della Grecia sono stati chiamati nuovamente alle urne per le amministrative.

Nea Dimokratia, il partito di centrodestra greco, conferma il suo momento positivo: i candidati conservatori vincono in maniera schiacciante al secondo turno delle elezioni amministrative greche ad Atene e nella regione della capitale, l’Attica, i due “premi” più ricchi in ballo per questo voto.


Il premier Alexis Tsipras, già sconfitto alle europee di domenica scorsa, ha ora di fronte una missione praticamente impossibile: convincere in un mese i suoi connazionali, che anche nel secondo turno delle Amministrative, dopo il voto per l'europarlamento, hanno bocciato questi anni di governo nonostante misure a favore dei meno abbienti varate negli ultimi mesi e una buona crescita economica del Paese, a ridare fiducia alla sua coalizione della sinistra radicale.

Secondo le proiezioni della Singular Logic, basate sui dati del ministero dell’Interno, il nuovo sindaco di Atene è Konstantinos Bakoyannis (Nea Dimokratia) con il 65,2% dei consensi: la capitale era amministrata dal socialista Kaminis. Nella regione dell’Attica, il candidato alla presidenza Giorgos Patoulis – anch’egli espressione del centrodestra – è nettamente avanti con il 66,2%. L’area nella quale vivono oltre quattro milioni di cittadini della Grecia era governata da Rena Dourou di Syriza. In conservatori hanno invece perso al ballottaggio a Salonicco, dove partiva da una situazione di vantaggio al primo turno. A Patrasso conferma per il sindaco comunista Peletidis, noto per la sua posizione pro-migranti.

Syriza, il movimento che esprime l’attuale premier Alexis Tsipras, è in calo di consensi. La parabola del leader della Sinistra radicale appare in forte declino: il 44enne è alla guida del Paese ellenico dal 2015. Il voto nelle elezioni europee Le elezioni per il Parlamento europeo di domenica scorsa in Grecia hanno visto l’affermazione di Nea Dimokratia con il 33,13% dei voti. Al secondo posto Syriza con meno del 24%. Molto staccato il Movimento per il Cambiamento (che racchiude anche il Pasok) con il 7,7%. Poi il Partito Comunista e Alba dorata, con due seggi a testa. La tendenza in vista delle elezioni politiche sembra premiare il centrodestra, pronto a ritornare alla guida della Grecia.

Il premier Alexis Tsipras, già sconfitto alle europee di domenica scorsa, ha ora di fronte una missione praticamente impossibile: convincere in un mese i suoi connazionali, a ridare fiducia alla sua coalizione della sinistra radicale. L’appuntamento è per il 7 luglio, una data che - a vedere anche un sondaggio pubblicato dopo la chiusura dei seggi, che assegna ai conservatori fino al 36,5% - potrebbe invece vedere il successo di Kyriakos Mitsotakis, leader di Nea Dimokratia. Ovvero, il ritorno al potere di una delle grandi famiglie politiche greche, quella del premier Konstantinos Mitsotakis, suo padre, che governò la Grecia dal 1990 al 1993.

 

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