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Gli invisibili sono persone sull’orlo dell’oblio. Sono anche luoghi maledetti sui quali il tempo e l’indifferenza umana provocano una rimozione lenta del loro valore simbolico. È la memoria civile e collettiva l’unico antidoto al rischio concreto del silenzio mentre la documentazione, di ogni tipo, è da sempre lo strumento privilegiato per sensibilizzare l’opinione pubblica. Si muove da questa esigenza l’indagine di Lavinia Caminiti, fotografa, autrice e curatrice de La mafia uccide, il silenzio pure. GLI INVISIBILI ammazzati dalla mafia e dall’indifferenza, la mostra visibile a tutti dal 7 al 30 novembre in piazza del Campidoglio, promossa da Roma Capitale in occasione del trentennale degli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura.

"Noi tutti abbiamo l’obbligo e il dovere morale di ricordare e tramandare, soprattutto alle nuove generazioni, quanto accaduto. Perché è la memoria la condizione necessaria per continuare la nostra battaglia per la legalità e la giustizia, per onorare chi ha sacrificato la vita per questo. Ringrazio Francesco Greco, delegato alla legalità di Roma Capitale, e Lavinia Caminiti, fotografa e curatrice di questa mostra, per averla portata qui a Roma e messa a disposizione della cittadinanza e dei turisti. Tutti abbiamo il dovere di ricordare" dichiara il Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri.

Dopo aver esordito nel 2014 a Palermo e aver toccato negli anni molti luoghi della Sicilia e dell’Italia intera, l’esposizione fotografica della Caminiti, realizzata con la preziosa collaborazione del Procuratore della Repubblica Fernando Asaro, giunge a Roma, in uno dei luoghi più significativi della città, per una tappa fondamentale del suo lungo viaggio. I cittadini romani e non solo avranno l’opportunità, così, di avvicinarsi all’enorme lavoro di indagine svolto dalla Caminiti che, in una sorta di itinerario della memoria, racconta i delitti di mafia avvenuti nella sua Sicilia e nel resto d’Italia attraverso le immagini odierne dei luoghi in cui si sono consumate quelle tragedie. Gli scatti dimostrano, però, come la vita quotidiana abbia in parte occultato il valore di quei luoghi, con la gente che spesso percorre con indifferenza quegli angoli, quelle strade, quelle vie, senza accorgersi dei segni delle ferite ancora aperte. Un’indifferenza che diventa quasi cinismo davanti agli sfregi di luoghi privi di qualsiasi riferimento alla memoria: con targhe cancellate, lapidi divelte o, peggio ancora, nascoste da bancarelle, immondizia o decorazioni natalizie.

È per questo che Lavinia Caminiti tenta di risvegliare la coscienza del visitatore mettendo a confronto le immagini attuali di quei luoghi con le foto e gli articoli di stampa realizzati immediatamente dopo i tragici eventi. Le tracce del sangue lungo quelle strade diventano per la Caminiti i segni di una virtuale mappa del terrore, da ricostruire con rigore e sensibilità partendo dall’assassinio del poliziotto italo-americano Joe Petrosino, avvenuto in piazza Marina a Palermo nel lontano 12 marzo del 1909, fino ad arrivare all’uccisione del diciassettenne Genny Cesarano, avvenuta il 6 settembre 2015 nel rione Sanità a Napoli. In mezzo oltre un secolo di orribili delitti, di vittime sacrificali, a volte del tutto inconsapevoli, che hanno combattuto e sono morte per un’ideale di giustizia e libertà o più semplicemente per essersi trovate nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Ecco quindi, le storie tristemente conosciute di Peppino Impastato, ucciso nel 1978 nella sua Cinisi per aver combattuto la mafia e il suo rappresentante locale Gaetano Badalamenti; di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo “freddato” in un bar di via Francesco Paolo Di Blasi; o del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso in via Carini insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e al suo autista Domenico Russo. E si parla proprio di quest’ultimo atto efferato in un ulteriore prezioso documento presente nel percorso di visita. All’indomani dell’attentato al Generale Dalla Chiesa, la nipote del magistrato Cesare Terranova, Geraldina Piazza indirizzò uno sfogo all’allora giudice istruttore Giovanni Falcone che le rispose con una lettera oggi visibile a tutti, un documento emozionante pieno di gratitudine e coraggio, senso del dovere e speranza.

Nonostante ritraggono luoghi dalla normalità quasi sconvolgente, gli scatti di Lavinia Caminiti riescono ugualmente a farci tornare con la mente alle barbarie esecuzioni del passato. Come quelle ai danni di Piersanti Mattarella, ucciso sotto gli occhi della sua famiglia in via Libertà il 6 gennaio 1980; di Pio La Torre, inseguito e ucciso insieme al suo autista per i vicoli stretti che conducono a piazza Generale Turba; o di Don Pino Puglisi, sacerdote della zona di Brancaccio la cui missione venne bruscamente interrotta il 15 settembre del 1993 mentre rincasava in piazza Anita Garibaldi.

E come non lasciarsi assalire dalla commozione davanti ai tanti luoghi in cui magistrati, poliziotti e servitori dello stato hanno perso la vita. Il riconoscimento di quei luoghi è un esercizio necessario sul quale la nostra società deve allenarsi, non solo per sottrarli alla quotidianità che li rende invisibili ma per tenere sempre vivo il ricordo di eroi come Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i componenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo; come Paolo Borsellino ucciso in via D’Amelio insieme agli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. O come i magistrati Rocco Chinnici e Pietro Scaglione, Cesare Terranova, Gaetano Costa e Rosario Livatino. Come il Capitano dei Carabinieri di Monreale Emanuele Basile e il suo successore Mario D’Aleo, il poliziotto della Squadra Mobile di Palermo Calogero Zucchetto, l’agente Antonino Agostino.

Ma il lungo cammino di Lavinia Caminiti non si ferma qui e ci porta ancora in viale Campania a Palermo, sul luogo esatto dell’uccisione di Mario Francese, giornalista che aveva “osato” intervistare la moglie di Riina e sorella di Bagarella, Antonietta; in via Claudio Domino, dal nome del piccolo Claudio Domino, figlio undicenne del gestore del servizio di pulizia dell’aula bunker di Palermo, ucciso, perché durante il maxi-processo fu testimone involontario di scambio di stupefacenti tra spacciatori; in via Alfieri dove fu assassinato Libero Grassi, l’imprenditore che decise di ribellarsi non pagando il pizzo ai mafiosi; nella borgata di Tommaso Natale, ritrovo della vita sociale di Palermo, dove fu ucciso Giuseppe D’Angelo, uomo qualunque e onesto lavoratore colpevole solo di assomigliare a un boss locale nemico del clan Lo Piccolo. Per arrivare, infine, al Policlinico di Palermo, luogo in cui lavorava Paolo Giaccone, medico legale che venne ucciso per essersi rifiutato di “aggiustare” le conclusioni di una perizia dattiloscopica che incastrava uno dei killer di una strage di mafia avvenuta a Bagheria.

L’indagine fotografica termina poi con le odierne immagini di quei luoghi simbolo in cui, nella tragica annata stragista del 1993, la mafia decise di sferrare il suo tremendo attacco allo Stato attraverso gli attentati dinamitardi, e purtroppo ancora sanguinari, di Roma, alla Basilica di San Giovanni in Laterano e alla Chiesa di San Giorgio al Velabro (27 – 28 luglio), di via Palestro a Milano (27 luglio) e di via dei Georgofili a Firenze (28 maggio).

A conclusione della mostra, infine, un’ultima sezione dal titolo Le Rose Spezzate, fortemente voluta dall’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) su proposta dalla Procura della Repubblica di Tivoli e del suo Procuratore Francesco Menditto e curata da Lavinia Caminiti. Il titolo è tratto dal manifesto simbolo dell’ANM, che ritrae delle rose spezzate in due parti con accanto i nomi dei 28 magistrati assassinati dalla mafia, dal terrorismo e per causa di servizio. Grazie alla gentile concessione dei familiari delle vittime, Lavinia Caminiti completa questa lista con una galleria fotografica dei magistrati ripresi durante le scene di vita quotidiana.

Fonte Zètema Progetto Cultura

Mentre si infiammano le polemiche e le discussioni sul nuovo Governo Meloni, io continuo nel mio studio della Storia tra le due guerre mondiali. Ho iniziato con l’interessante e documentato volume del professore americano Stanley Paine, ora tento di presentare “Hitler e il Vaticano”. Sottotitolo: “Dagli archivi segreti vaticani la vera storia dei rapporti fra il nazismo e la Chiesa”, di Peter Godman, pubblicato da Lindau (2005. e 27,00; pagg 361)

Il periodo storico che affronta il testo è uno tra i più difficili e contraddittori per la Chiesa cattolica. Sono gli anni ‘30 quando prende il sopravvento in Germania il Nazionalsocialismo di Adolf Hitler. In quegli anni la Chiesa era guidata da Papa Pio XI, Achille Ratti, mentre in Germania come segretario di Stato, dopo essere stato Nunzio Apostolico c’era Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII. Sia il Papa che Pacelli sono stati fortemente criticati dagli storici per il silenzio sul nazismo e per la sua esplicita condanna. Addirittura Papa Pacelli è stato definito da alcuni storici come il “Papa di Hitler”, perché si è rifiutato di condannare il nazismo in modo esplicito e mai esortò i cattolici a opporsi. Tuttavia questi gravi giudizi si fondarono su prove sommarie perché il Vaticano ha tenuto segrete le carte relative a quegli anni cruciali. Nel febbraio 2003, la Santa Sede ha aperto i suoi archivi e lo studioso imparziale non cattolico, Peter Godman, è stato dei primi a visionare quel materiale inedito.

Godman espone un giudizio serrato sulla Chiesa romana di quell’epoca, un’istituzione a “più voci”, tutt'altro che monolitica, in cui il legalismo ebbe la meglio sul senso morale della tragedia che si stava consumando o profilando.

“Perché la Chiesa cattolica non levò la sua voce contro la crudeltà del nazismo, la brutalità del totalitarismo, la repressione delle libertà nel Terzo Reich?”. E’ una domanda che ancora oggi si ripete nelle varie “refezioni scolastiche”, nei cosiddetti libri di testo. Altra domanda perché dei silenzi sul nazismo da parte delle autorità di allora? Sono domande che hanno posto in tanti. In questo libro Godman vi riproduce integralmente i documenti più importanti, e analizza le conversazioni tra Pio XI e i suoi cardinali. Il libro di Godman è un viaggio all’interno degli archivi segreti del Vaticano. L’autore nonostante tutto constata che in Vaticano erano consapevoli che le dottrine di Hitler erano fortemente antiumane e soprattutto anticristiane. Già negli anni ‘30 la Santa Sede aveva preparato una condanna degli errori morali e dottrinali del nazionalsocialismo. Si basavano sulle tesi espresse nel Mein Kampf e in altri scritti e discorsi di Hitler. Le condanne colpivano gli elementi fondamentali dell’ideologia nazionalsocialista, come il “sangue” e la sua “purezza”. “L’attacco a Hitler - scrive Godman - non si fermava qui. Vennero condannate anche le sue idee e quelle degli ideologi nazisti su temi che spaziavano dall’eugenetica alla sterilizzazione, dall’educazione alla leadership, ai diritti dei singoli”. Sostanzialmente il programma del nazionasocialismo era bollato come incompatibile con il cristianesimo. Tuttavia questi documenti non ebbero sviluppo, rimasero bloccati per diversi motivi. Di fronte alle situazioni critiche si preferì fare sempre riferimento al Concordato con il governo nazista.

Naturalmente il libro fa riferimento ai protagonisti che all’interno del Vaticano hanno studiato il fenomeno nazista hitleriano e soprattutto hanno cercato di interpretarlo per quello che era. Tra questi oltre ai cardinali Pacelli e Orsenigo, una figura si è distinta più di altri, è quella di Alois Hudal, un prelato ambiguo, ambizioso, un uomo desideroso di apparire, di farsi un nome.

Questo religioso era convinto che nel nazionasocialismo fossero presenti due anime: i conservatori e l’ala sinistra, progressista del Partito, facente capo a Rosenberg, con il suo libro, “Il mito del XX° secolo”. Un testo di aperta ostilità verso il cristianesimo e in particolare il cattolicesimo. Hudal ad un certo punto fu definito addirittura il “cardinale bruno”, per lui la Chiesa doveva cristianizzare la parte conservatrice dei nazisti. Era una pia illusione quella di Hudal, che scrisse un libro sulle “fondamenta intellettuali” del movimento nazista. Hudal era convinto che da un lato la Chiesa “doveva condannare gli errori dei nazisti; dall’altro avrebbe dovuto cristianizzare il loro movimento e perseguire una riconciliazione”. In pratica Hudal secondo Godman era talmente ossessionato dai suoi piani che si stava allontanando dalla realtà.

Godman racconta il lavoro assegnato dai vertici della Chiesa ai Gesuiti per studiare le tesi del nazionasocialismo. Sono stati incaricati dal Sant’Ufficio, Franz Hurth e Johannes Baptista Rabeneck, un “servizio segreto” stimato da Pio XI in persona. Il Papa aveva fiducia in questi gesuiti, in particolare in Hurth, che aveva preso posizione sulla sterilizzazione degli incapaci. Il dibattito era aperto anche all’interno della Chiesa. Tuttavia per Hurth, la vita è sacra e lo Stato non aveva alcun diritto di distruggerla. Inoltre si apriva il giudizio sull’eutanasia, anche qui la Chiesa doveva opporsi all’omicidio legalizzato degli ammalati. Anche gli “esseri inferiori” possedevano il diritto naturale di contrarre matrimonio e procreare. “Le leggi finalizzate alla sterilizzazione o a impedire rapporti sessuali per motivo di ‘igiene razziale’ erano erronee, sbagliate, pericolose assolutamente proibite”.

Interessante le riflessioni di Godman sui due gesuiti, che sostanzialmente ancor prima del Processo di Norimberga, misero sul banco degli imputati i nazisti, condannando l'ideologia del nazionasocialismo. I gesuiti si concentrarono sulla “purezza del sangue”, naturalmente secondo loro non c’era nessuna possibilità di riconciliazione tra il principale credo razzista e le dottrine del cattolicesimo.

Intanto il libro di Godman fa una serie analisi del radicalismo del Mein Kampf, dove già si poteva intuire la terribile “logica” che avrebbe portato alla persecuzione degli ebrei, ad Auschwitz. Il Mein Kampf, scrive Godman non era uno sfogo di un eccentrico. Sia Hurth che Rabeneck vedevano con sospetto l’attenzione dei nazisti allo sport, al corpo umano, la purezza della razza unita e disciplinata.

I Gesuiti proposero 14 punti, successivamente diventati 47, dove si riassumono gli errori capitali del nazionalsocialismo, dal punto di vista dell’ortodossia cattolica. Per i gesuiti era fondamentale che “in tutta l’umanità è essenzialmente presente la stessa natura”, indipendentemente dalla razza o dalle circostanze, ciascuno possiede i diritti e i privilegi che derivano dalla natura comune. Per cui i gesuiti respinsero il nazismo in nome dell’unità del genere umano. I gesuiti catalogarono tutti i diritti negati agli individui dell’ideologia nazista: dalla vita, alla integrità fisica, alla libertà personale, al culto di Dio, al matrimonio. In pratica hanno delineato lo Stato totalitario. Hurth e Rabeneck non caddero nella trappola di Hitler che ipocritamente si dichiarava cattolico, come invece cadde Hudal, che ancora dava credito ai nazisti. I due gesuiti capirono di avere davanti un movimento che non era soltanto politico. Pertanto Pio XI nel 1935 era pronto per una condanna del nazismo.

Intanto nel testo, l’autore insiste sul ruolo diplomatico di Pacelli come cardinale e segretario di Stato di Pio XI nel periodo 1933-1939. Qualcuno l’ha definita anche “tragica debolezza”. Occorre considerare diversi problemi nei negoziati con il governo tedesco, tuttavia Pacelli, ha mantenuto apertura ma nello stesso tempo fermezza: “La Chiesa non può stare a guardare mentre i giovani, sostegno delle nuove generazioni future, viene predicato il messaggio falso e ingannevole di un nuovo materialismo della razza invece della gioiosa novella degli insegnamenti di cristo [...]”. Pacelli difese sempre il ruolo pubblico del cattolicesimo, riferendosi sempre al Concordato che sistematicamente violato dai nazisti. Ma Roma “avrebbe frenato la lingua, per paura di peggiorare le cose”. Pacelli nonostante tutto era convinto che con i nazisti non c’erano alternative al Concordato. Il risultato fu per lui “un martirio di pazienza”.

Tuttavia la lentezza biblica del Vaticano non conduce ancora alla condanna dell’ideologia perversa del nazionalsocialismo. Andava evitato ad ogni costo di dare l’impressione di compiere un “gesto politico”. La condanna del nazismo doveva risultare da preoccupazioni pastorali. Alla fine Il Sant’Ufficio scelse di fare due condanne separate una per il nazismo e l’altra per il comunismo, con due encicliche la “Mit Brennender Sorge” e la ``Divini Redemptoris”.

Il libro di Godman conclude con il paragone tra i due Papi che hanno affrontato Hitler e il nazismo. Sia a Papa Ratti che a Papa Pacelli non gli mancava il coraggio, non erano codardi, ma decisero di non dichiarare “guerra” ai nazisti e ai fascisti.

Godman conclude con una domanda fondamentale: Quella stessa Chiesa che non esitò a condannare il comunismo ateo in termini chiari e netti. Perchè nel caso dei nazisti e dei fascisti, si trattenne dal farlo? Per Godman la risposta è che con loro aveva firmato un Concordato. Inoltre sembra che il Papa era stato informato che i tedeschi, favorevoli a Hitler, non avrebbero opposto resistenza al suo regime. E poi c’erano i vescovi tedeschi, rispettosi dell’autorità, erano pochi quelli disposti a diventare eroi. Tranne il leone di Munster, Clemens August von Galen.

Un’ora con il sarto è il titolo del libro di Arianna Geronzi e Domenico Di Rosa, che verrà presentato venerdì 9 settembre, nella Sala Consiliare presso il Municipio di Marino Laziale alle ore 18.00 Fashioning pubblica il suo libro” Un’ora con il sarto”, scritto da Arianna Geronzi e Domenico Di Rosa, acquistabile online in formato cartaceo ed e-book. Il testo è un vero e proprio viaggio nel mondo della sartoria italiana, il racconto della storia della vita di sarti e sarte famosi/e italiani che hanno consacrato la propria vita all’arte di realizzare l’abito sartoriale per eccellenza, secondo la tradizione. 

Sarà pura gioia e scoperta di questo ambito della moda, che tutto il mondo invidia a noi italiani e che si tramanda tramite scuole specifiche, come l’Accademia dei Sartori. Alla presentazione prenderanno parte, oltre agli autori Arianna Geronzi e Domenico Di Rosa, il sindaco Stefano Cecchi, la vicesindaca Sabrina Minucci e l’Assessore alla cultura Pamela Muccini. A condurre la serata Maria Angela Nocenzi, ex direttrie della Biblioteca Comunale della città. Le conversazioni saranno intervallate dalla lettura di passi del libro. È importante e necessario valorizzare brand e designer italiani che portano avanti l’ artigianato e la tradizione italiana. Sono tantissime le piccole realtà italiane che spesso sono più conosciute all’estero che nel nostro paese.Realtà che hanno fatto e fanno del nostro paese il più conosciuto a livello mondiale per tradizione, qualità e stile per la produzione di abbigliamento. 

Con questo libro gli autori danno il via ad una ricerca personale, raccogliendo le storie di noti sarti e sarte che hanno abbracciato il progetto di rilancio dell’artigianato italiano. Il libro nasce inizialmente come rubrica del magazine online dell’Agenzia, che non si occupa solo di comunicazione, ma vuole valorizzare la tradizione artigianale italiana, in questo caso, quella sartoriale. Gli articoli sono stati redatti per raccontare il valore dello stile sartoriale e quanto sia importante nel mondo la sartoria italiana. Il libro è incentrato sul capo perfetto per eccellenza: la giacca. Sono stati affrontati temi diversi spaziando dai trend, a quelli più specifici come i dettagli tecnici: stoffe e accessori. Entrare in una sartoria oggi significa essere “coccolati” nella scelta del giusto tessuto necessario per la realizzazione dell’abito richiesto, dalla presa delle misure fino ai consigli stilistici. Nel testo si analizzano diverse scuole, ognuna con le proprie sfumature: la scuola napoletana si differenzia da quella siciliana ma il gusto, l’attenzione ai materiali e la centralità del cliente sono caratteristiche comuni a tutte. Indagando tra le storie dei sarti è venuto fuori uno spaccato del mestiere del sarto e di come è cambiato negli anni perché ha dovuto adattarsi alle nuove esigenze di mercato e fare anche marketing online. Abbiamo raccontato tutto quello che succede quando si prende appuntamento da un sarto e tutto il grande lavoro che si svolge in bottega! Fashioning ama la moda italiana, la tradizione e il saper fare italiano, la creatività e il fatto a mano

Risale al 2021 l’uscita del libro “Scrivere per fare business, dal personal branding al brand journalism” a cura della giornalista Michela Trada edito da Do it Human e ancora oggi riscuote successo perché non vuole essere un manuale di comunicazione, ma un ricettario - come ama definirlo l’autrice stessa - pensato appositamente per imprenditori e liberi professionisti al fine di ottenere risultati concreti in materia di business dalla produzione di contenuti scritti.

Storytelling, content marketing, brand journalism: queste le tre tecniche di scrittura esaminate con esempi e casi studio al fine di arrivare a definire in modo autentico il proprio personal branding e incrementare così la propria reputazione online e offline.

Non è mai troppo tardi, del resto, per iniziare e imparare a scrivere di se stessi e della propria azienda partendo dai propri valori e dal proprio perchè: oggi siamo noi il “brand” in vetrina da acquistare.

All’interno della pubblicazione, con prefazione di Alessio Beltrami, anche i contributi di volti noti del mondo della Comunicazione tra cui Riccardo Scandellari, Giulia Bezzi, Salvatore Russo e Oscar di Montigny.

«La nostra Storia fa notizia se utilizziamo le parole corrette per raccontarla – rivela l’autrice – La scrittura è lo strumento più potente a nostra disposizione per far emergere noi stessi, il nostro perché e i nostri valori: le persone non comprano più un prodotto/servizio, ma chi lo rappresenta. E la scelta avviene per affinità e vision comuni».

«Questo libro è un compagno di viaggio ideale per chi vuole diventare padrone della propria comunicazione, ma ti avverto, potrebbe diventare un compagno di viaggio scomodo perché, come tutti i facilitatori del cambiamento, ti chiederà di modificare idee e abitudini.» Dalla prefazione di Alessio Beltrami – docente, autore e fondatore di Content Marketing Academy.

Michela Trada è giornalista, speaker e amante del bello in ogni sua forma ed espressione. Dal 2018, assieme a Sabrina Falanga, è Ceo della casa editrice Brainding, direttore di Inkalce Magazine e vice direttore di News48.it, il primo magazine Italiano di giornalismo costruttivo. È parte del team nazionale dell’ufficio stampa del Lions Club e membro del Constructive Network. Crede in un Giornalismo costruttivo al servizio della comunità e nella valorizzazione del talento di ciascun individuo, in primis dei giovani.

Attraverso il Brand Journalism, in cui è specializzata, dà voce alle eccellenze italiane. È autrice del libro “Scrivere per fare business, dal personal branding al brand journalism” edito da Do it Human.

 

 

“Storia di un presidente che si credeva un topo” di Giuseppe Tecce è un romanzo in cui si mescola realtà e fantasia per parlare di questa pandemia che ha cambiato per sempre le vite e i progetti di tutti gli esseri umani. Con una scrittura molto attenta a descrivere anche i gesti più semplici compiuti dal protagonista - che si chiude a causa del Coronavirus in una quarantena ad oltranza, ben oltre i limiti indicati dalle disposizioni governative - si narra la storia di un uomo le cui azioni, anche le più piccole, diventano fondamentali nella sua routine quotidiana, essendo l’appiglio a cui aggrapparsi per non perdere la lucidità.

Andrea è un uomo metodico e tranquillo; è il presidente di una cooperativa sociale ed è appassionato di testi medici, che divora nel tempo libero per mitigare la sua ipocondria. L’autore ci fa entrare nella sua vita nel momento in cui, agli inizi di marzo 2020, il mondo si è fermato per cercare di contrastare l’avanzata del Covid19; Andrea è confuso dai primi decreti che parlano di misure restrittive e di un numero di contagi sempre più elevato, ed è anche spaventato dalla possibilità di prendere il virus essendo affetto da diabete mellito. L’autore presenta quindi un diario del lockdown, sin dal giorno uno, in cui descrive l’atteggiamento maniacale adottato dal protagonista per affrontare quel periodo di smarrimento: ad esempio, ogni mattina si osserva attentamente allo specchio, come per essere sicuro di riconoscersi ancora. Lentamente, però, si abbandona alla monotonia della sua “prigionia”, diventando sempre più apatico e nervoso - «Il senso di peso psicologico che Andrea portava dentro di sé – ben oltre la solita sensazione di ansia – era un macigno, messo in bilico tra testa e cuore, che sbilanciandosi, verso l’uno o verso l’altro, lo portava a sragionare o ad avere le palpitazioni». Andrea non fa che pensare al virus e, quando scopre che si sta sperimentando un vaccino, è ossessionato dall’idea di trovare un modo per essere vaccinato al più presto, per «salvarsi dall’imminente distruzione del genere umano». Mentre il protagonista svela il suo esasperato individualismo che sfocia in un egoismo senza pari, un evento a dir poco surreale lo spinge a cambiare la direzione del suo sguardo; forse una possibilità di salvezza c’è, per quanto sia estremamente azzardata, e potrebbe anche redimerlo dalla sua codardia.

Giuseppe Tecce racconta una storia emozionante che si conclude con un finale profondamente amaro e audace, che lascia un pressante interrogativo sulla veridicità di ciò che ci è stato appena narrato.

SINOSSI DELL’OPERA

Andrea è lo storico presidente di una cooperativa sociale di Benevento. La sua routine, divisa tra gli impegni lavorativi e quelli familiari, subisce una battuta d'arresto che coinvolge buona parte della popolazione terrestre: la pandemia causata dal Coronavirus ridisegna le ascisse e le ordinate della quotidianità. Per Andrea è l'inizio di un periodo di forte disorientamento, poiché la sua salute è fragile e il timore del contagio lo porta all'auto reclusione, oltre i confini del lockdown. Quando cominciano a circolare le prime notizie relative a delle sperimentazioni in un istituto di Napoli, cresce in lui una speranza e in parallelo anche una consapevolezza: se fosse un topo, potrebbe avere un canale privilegiato per raggiungere il prezioso vaccino. E a desiderare troppo qualcosa, a volte, si ottengono risultati insperati.

BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Giuseppe Tecce (Benevento, 1972) è laureato in Giurisprudenza e dal 2001 è presidente di una cooperativa sociale di Benevento che si occupa di servizi dedicati a persone svantaggiate ed emarginate, realizzando strutture residenziali di accoglienza per minori temporaneamente allontanati dal proprio nucleo familiare, per persone affette da disabilità psichica e per migranti. Tra il 2012 ed il 2018 è stato presidente del Consorzio di Cooperative Sociali ASIS nella Regione Campania, specializzandosi nella realizzazione di progetti europei. Si occupa di tutela del territorio, valorizzazione e conservazione del patrimonio culturale e di paesaggio tra il Sannio e l’Alta Irpinia, attraverso l’associazione “I Coccioni”. “Storia di un presidente che si credeva un topo” è il suo primo romanzo, dopo “L’agente della Terra di Mezzo”, il diario di un viaggio in bicicletta nella terra Irpina, e due raccolte di poesie.

 

 

 

 

 

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